Giove

La sonda Juno

Giove: il gigantesco pianeta del sistema solare che ruota quieto attorno alla sue stella madre. Osservando questo mondo misterioso da lontano sembra tranquillo ma in realtà è sconvolto da forze immani. Seguici su Eagle sera per saperne di più.




Il pianeta più grande del Sistema Solare

Giove (dal latino Iovem, accusativo di Iuppiter) è il quinto pianeta del sistema solare in ordine di distanza dal Sole e il più grande di tutto il sistema planetario: la sua massa corrisponde a due volte e mezzo la somma di quelle di tutti gli altri pianeti messi insieme. È classificato, al pari di Saturno, Urano e Nettuno, come gigante gassoso. Giove ha una composizione simile a quella del Sole: infatti è costituito principalmente da idrogeno ed elio con piccole quantità di altri composti, quali ammoniaca, metano ed acqua. Si ritiene che il pianeta possegga una struttura pluristratificata, con un nucleo solido, presumibilmente di natura rocciosa e costituito da carbonio e silicati di ferro, sopra il quale gravano un mantello di idrogeno metallico ed una vasta copertura atmosferica che esercitano su di esso altissime pressioni. L'atmosfera esterna è caratterizzata da numerose bande e zone di tonalità variabili dal color crema al marrone, costellate da formazioni cicloniche ed anticicloniche, tra le quali spicca la Grande Macchia Rossa. La rapida rotazione del pianeta gli conferisce l'aspetto di uno sferoide schiacciato ai poli e genera un intenso campo magnetico che dà origine ad un'estesa magnetosfera; inoltre, a causa del meccanismo di Kelvin-Helmholtz, Giove (come tutti gli altri giganti gassosi) emette una quantità di energia superiore a quella che riceve dal Sole. A causa delle sue dimensioni e della composizione simile a quella solare, Giove è stato considerato per lungo tempo una "stella fallita": in realtà solamente se avesse avuto l'opportunità di accrescere la propria massa sino a 75-80 volte quella attuale il suo nucleo avrebbe ospitato le condizioni di temperatura e pressione favorevoli all'innesco delle reazioni di fusione dell'idrogeno in elio, il che avrebbe reso il sistema solare un sistema stellare binario. L'intenso campo gravitazionale di Giove influenza il sistema solare nella sua struttura perturbando le orbite degli altri pianeti e lo "ripulisce" da detriti che altrimenti rischierebbero di colpire i pianeti più interni. Intorno a Giove orbitano numerosi satelliti e un sistema di anelli scarsamente visibili; l'azione combinata dei campi gravitazionali di Giove e del Sole, inoltre, stabilizza le orbite di due gruppi di asteroidi troiani. Il pianeta, conosciuto sin dall'antichità, ha rivestito un ruolo preponderante nel credo religioso di numerose culture, tra cui i Babilonesi, i Greci e i Romani, che lo hanno identificato con il sovrano degli dei. Il simbolo astronomico del pianeta (♃) è una rappresentazione stilizzata del fulmine, principale attributo di quella divinità.

Glossario: pianeta

Un pianeta è un corpo celeste che orbita attorno a una stella e che, a differenza di questa, non produce energia tramite fusione nucleare, la cui massa è sufficiente a conferirgli una forma sferoidale, laddove la propria dominanza gravitazionale gli permette di mantenere libera la sua fascia orbitale da altri corpi di dimensioni comparabili o superiori. 

Osservazione

Giove appare ad occhio nudo come un astro biancastro molto brillante a causa della sua elevata albedo. È il quarto oggetto più brillante nel cielo, dopo il Sole, la Luna e Venere con cui, quando quest'ultimo risulta inosservabile, si spartisce il ruolo di "stella del mattino" o "stella della sera". La sua magnitudine apparente varia, a seconda della posizione durante il suo moto di rivoluzione, da −1,6 a −2,8, mentre il suo diametro apparente varia da 29,8 a 50,1 secondi d'arco. Il periodo sinodico del pianeta è di 398,88 giorni, al termine dei quali il corpo celeste inizia una fase di moto retrogrado apparente, in cui sembra spostarsi all'indietro nel cielo notturno rispetto allo sfondo delle stelle "fisse" eseguendo una traiettoria sigmoide. Giove, nei 12 anni circa della propria rivoluzione, attraversa tutte le costellazioni dello zodiaco. Il pianeta è interessante da un punto di vista osservativo in quanto già con piccoli strumenti è possibile apprezzarne alcuni caratteristici dettagli superficiali. I periodi più propizi per osservare il pianeta corrispondono alle opposizioni e in particolare alle "grandi opposizioni", che si verificano ogni qual volta Giove transita al perielio. Queste circostanze, in cui l'astro raggiunge le dimensioni apparenti massime, consentono all'osservatore amatoriale, munito delle adeguate attrezzature, di scorgere più facilmente gran parte delle caratteristiche del pianeta. Un binocolo 10×50 o un piccolo telescopio rifrattore consentono già di osservare attorno al pianeta quattro piccoli punti luminosi, disposti lungo il prolungamento dell'equatore del pianeta: si tratta dei satelliti medicei. Poiché essi orbitano abbastanza velocemente intorno al pianeta, è possibile notarne i movimenti già tra una notte e l'altra: il più interno, Io, arriva a compiere tra una notte e la successiva quasi un'orbita completa. Un telescopio da 60 mm permette già di osservare le caratteristiche bande nuvolose e, qualora le condizioni atmosferiche siano perfette, anche la caratteristica più nota del pianeta, la Grande Macchia Rossa che però è maggiormente visibile con un telescopio di 25 cm di apertura che consente di osservare meglio le nubi e le formazioni più fini del pianeta. Il pianeta risulta osservabile non solo nel visibile, ma anche ad altre lunghezze d'onda dello spettro elettromagnetico, principalmente nell'infrarosso. L'osservazione a più lunghezze d'onda si rivela utile soprattutto nell'analisi della struttura e della composizione dell'atmosfera e nello studio delle componenti del sistema di Giove. Una delle prime civiltà a studiare i moti di Giove e degli altri pianeti visibili ad occhio nudo (Mercurio, Venere, Marte e Saturno) fu quella assiro-babilonese. Gli astronomi di corte dei re babilonesi riuscirono a determinare con precisione il periodo sinodico del pianeta; inoltre, si servirono del suo moto attraverso la sfera celeste per delineare le costellazioni zodiacali. La scoperta negli archivi reali di Ninive di tavolette recanti precisi resoconti di osservazioni astronomiche e il frequente rinvenimento di parti di strumentazioni a probabile destinazione astronomica, come lenti di cristallo di rocca e tubi d'oro (datati al I millennio a.C.), indussero alcuni archeoastronomi a ipotizzare che la civiltà assira fosse già in possesso di un "prototipo" di cannocchiale, con il quale si ritiene sia stato possibile osservare anche Giove. Anche i cinesi, noti per la raffinatezza delle loro tecniche astronomiche, riuscirono a ricavare in maniera precisa i periodi sinodici ed orbitali dei pianeti visibili ad occhio nudo. Nel 1980 lo storico cinese Xi Zezong ha annunciato che Gan De, astronomo contemporaneo di Shi Shen, sarebbe riuscito ad osservare almeno uno dei satelliti di Giove già nel 362 a.C. a occhio nudo, presumibilmente Ganimede, schermando la vista del pianeta con un albero o qualcosa di analogo. Bisognerà però attendere il XVII secolo prima che l'esistenza dei satelliti di Giove sia appurata da Galileo Galilei, che, nel 1610, scoprì i quattro satelliti medicei: Io, Europa, Ganimede e Callisto; fu però Simon Marius, che si attribuì la paternità della scoperta dei satelliti, alimentando in questo modo una fiera diatriba con Galileo, a conferire nel 1614 i nomi mitologici attualmente in uso a ciascuno di essi. Nell'autunno del 1639 l'ottico napoletano Francesco Fontana, diffusore del telescopio a oculare convergente (kepleriano), testando un telescopio di 22 palmi di sua produzione scoprì le caratteristiche bande dell'atmosfera del pianeta. Negli anni sessanta del XVII secolo l'astronomo Gian Domenico Cassini, scoprì la presenza di macchie sulla superficie di Giove e che il pianeta stesso ha la forma di uno sferoide oblato. L'astronomo riuscì poi a determinarne il periodo di rotazione, e nel 1690 scoprì che l'atmosfera è soggetta a una rotazione differenziale; egli è inoltre accreditato come lo scopritore, assieme, ma indipendentemente, a Robert Hooke, della Grande Macchia Rossa. Lo stesso Cassini, assieme a Giovanni Alfonso Borelli, stese precise relazioni sul movimento dei quattro satelliti galileiani, formulando dei modelli matematici che consentissero di prevederne le posizioni. Tuttavia nel trentennio 1670-1700, si osservò che, quando Giove si trova in un punto dell'orbita prossimo alla congiunzione col Sole, si registra nel transito dei satelliti un ritardo di circa 17 minuti rispetto al previsto. L'astronomo danese Ole Rømer ipotizzò che la visione di Giove non fosse istantanea (conclusione che Cassini aveva precedentemente respinto) e che dunque la luce avesse una velocità finita (indicata con c). Dopo due secoli privi di significative scoperte, il farmacista Heinrich Schwabe disegnò la prima carta completa di Giove, comprendente anche la Grande Macchia Rossa, e la pubblicò nel 1831.[45][48] Le osservazioni della tempesta hanno permesso di registrare dei momenti in cui essa appariva più debole (come tra il 1665 e il 1708, nel 1883 ed all'inizio del XX secolo), ed altri in cui appariva rinforzata, tanto da risultare molto ben evidente all'osservazione telescopica (come nel 1878). Nel 1892 Edward Emerson Barnard scoprì, grazie al telescopio rifrattore da 910 mm dell'Osservatorio Lick, la presenza attorno al pianeta di un quinto satellite, battezzato Amaltea. Nel 1932 Rupert Wildt identificò, analizzando lo spettro del pianeta, delle bande di assorbimento proprie dell'ammoniaca e del metano. Sei anni dopo furono osservate, a sud della Grande Macchia Rossa, tre tempeste anticicloniche che apparivano come dei particolari ovali biancastri. Per diversi decenni le tre tempeste sono rimaste delle entità distinte, non riuscendo mai a fondersi pur avvicinandosi periodicamente; tuttavia, nel 1998, due di questi ovali si sono fusi, assorbendo infine anche il terzo nel 2000 e dando origine a quella tempesta che oggi è nota come Ovale BA. Nel 1955 Bernard Burke e Kenneth Franklin individuarono dei lampi radio provenienti da Giove alla frequenza di 22,2 MHz; si trattava della prima prova dell'esistenza della magnetosfera gioviana. La conferma giunse quattro anni dopo, quando Frank Drake ed Hein Hvatum scoprirono le emissioni radio decimetriche. Nel periodo compreso tra il 16 e il 22 luglio 1994 oltre 20 frammenti provenienti dalla cometa Shoemaker-Levy 9 collisero con Giove in corrispondenza del suo emisfero australe; fu la prima osservazione diretta della collisione tra due oggetti del sistema solare. L'impatto permise di ottenere importanti dati sulla composizione dell'atmosfera gioviana. 

Esplorazione e caratteristiche

Sin dal 1973 numerose sonde automatiche hanno visitato il pianeta, sia come obiettivo di studio, sia come tappa intermedia, per sfruttarne il potente effetto fionda per ridurre la durata del volo verso le regioni più esterne del sistema solare. I viaggi interplanetari richiedono un grande dispendio energetico, impiegato per provocare una netta variazione della velocità della sonda nota come delta-v (Δv). Il raggiungimento di Giove dalla Terra richiede un Δv di 9,2 km/s, confrontabile con il Δv di 9,7 km/s necessario per raggiungere l'orbita terrestre bassa. L'effetto fionda consente di modificare la velocità del veicolo senza consumare combustibile. Dal 1973 diverse sonde hanno compiuto sorvoli ravvicinati (fly-by) del pianeta. La prima fu la Pioneer 10, che eseguì un fly-by di Giove nel dicembre del 1973, seguita dalla Pioneer 11 un anno più tardi. Le due sonde ottennero le prime immagini ravvicinate dell'atmosfera, delle nubi gioviane e di alcuni suoi satelliti, la prima misura precisa del suo campo magnetico; scoprirono inoltre che la quantità di radiazioni in prossimità del pianeta era assai superiore a quella attesa. Le traiettorie delle sonde furono utilizzate per raffinare la stima della massa del sistema gioviano, mentre l'occultazione delle sonde dietro il disco del pianeta migliorò le stime del valore del diametro equatoriale e dello schiacciamento polare. Sei anni dopo fu la volta delle missioni Voyager (1 e 2). Le due sonde migliorarono enormemente la comprensione di alcune dinamiche dei satelliti galileiani e dell'atmosfera di Giove, tra cui la conferma della natura anticiclonica della Grande Macchia Rossa e l'individuazione di lampi e formazioni temporalesche; le sonde permisero inoltre di scoprire gli anelli di Giove e otto satelliti naturali, che si andarono ad aggiungere ai cinque già noti. Le Voyager rintracciarono la presenza di un toroide di plasma ed atomi ionizzati in corrispondenza dell'orbita di Io, sulla cui superficie furono scoperti numerosi edifici vulcanici, alcuni dei quali nell'atto di eruttare. Nel febbraio del 1992 raggiunse Giove la sonda solare Ulysses, che sorvolò il pianeta ad una distanza minima di 450 000 km (6,3 raggi gioviani). Il fly-by fu programmato per raggiungere un'orbita polare attorno al Sole, ma fu sfruttato per condurre studi sulla magnetosfera di Giove. La sonda non aveva telecamere e non fu ripresa alcuna immagine. Nel 2000 la sonda Cassini, durante la sua rotta verso Saturno, sorvolò Giove e fornì alcune delle immagini più dettagliate mai scattate del pianeta. Sette anni dopo, Giove fu raggiunto dalla sonda New Horizons, diretta verso Plutone e la fascia di Kuiper. Nell'attraversamento del sistema di Giove, la sonda misurò l'energia del plasma emesso dai vulcani di Io e studiò brevemente ma in dettaglio i quattro satelliti medicei, conducendo anche indagini a distanza dei satelliti più esterni Imalia ed Elara. La prima sonda progettata per lo studio del pianeta è stata la Galileo, entrata in orbita attorno a Giove il 7 dicembre del 1995 e rimastavi oltre 7 anni, compiendo sorvoli ravvicinati di tutti i satelliti galileiani e di Amaltea. Nel 1994, mentre giungeva verso il pianeta gigante, la sonda ha registrato l'impatto della cometa Shoemaker-Levy 9. Nel luglio del 1995 è stato sganciato dalla sonda madre un piccolo modulo-sonda, entrato nell'atmosfera del pianeta il 7 dicembre; il modulo ha raccolto dati per 75 minuti, penetrando per 159 km prima di essere distrutto dalle alte pressioni e temperature dell'atmosfera inferiore (circa 28 atmosfere - ~2,8×106 Pa, e 185 °C (458 K). La stessa sorte è toccata alla sonda madre quando, il 21 settembre 2003, fu deliberatamente spinta verso il pianeta a una velocità di oltre 50 km/s, per evitare qualsiasi possibilità che in futuro potesse collidere con il satellite Europa e contaminarlo. La NASA ha progettato una sonda per lo studio di Giove da un'orbita polare; battezzata Juno, fu lanciata nell'agosto 2011 ed è arrivata nei pressi del pianeta a luglio 2016. Juno ha scoperto 8 vortici uguali al polo nord disposti ai vertici di un'ottagono (l'ottagono di Giove), con al centro un nono vortice, e 5 vortici uguali al polo sud disposti come i vertici di un pentagono con al centro un sesto vortice. In un passaggio successivo nel novembre 2019, la scoperta di un nuovo vortice ha mostrato una nuova forma della disposizione degli stessi, che diversamente da quello precedente che era un pentagono ha assunto la forma di un esagono, similmente all'esagono di Saturno. Osserviamo la possibilità di missioni future. La possibile presenza di un oceano di acqua liquida sui satelliti Europa, Ganimede e Callisto ha portato ad un crescente interesse per uno studio ravvicinato dei satelliti ghiacciati del sistema solare esterno. L'ESA ha studiato una missione per lo studio di Europa denominata Jovian Europa Orbiter (JEO); il progetto della missione è stato però implementato da quello della Europa Jupiter System Mission (EJSM), frutto della collaborazione con la NASA e studiato per l'esplorazione di Giove e dei satelliti, il cui lancio è previsto attorno al 2020. La EJSM è costituita da due unità, la Jupiter Europa Orbiter, gestita e sviluppata dalla NASA, e la Jupiter Ganymede Orbiter, gestita dall'ESA. Giove orbita ad una distanza media dal Sole di 778,33 milioni di chilometri (5,202 au) e completa la sua rivoluzione attorno alla stella ogni 11,86 anni; questo periodo corrisponde esattamente ai due quinti del periodo orbitale di Saturno, con cui si trova dunque in una risonanza di 5:2. L'orbita di Giove è inclinata di 1,31º rispetto al piano dell'eclittica; per via della sua eccentricità pari a 0,048, la distanza tra il pianeta e il Sole varia di circa 75 milioni di chilometri tra i due apsidi, il perielio (740 742 598 km) e l'afelio (816 081 455 km). La velocità orbitale media di Giove è di 13 056 m/s (47 001 km/h), mentre la circonferenza orbitale misura complessivamente 4 774 000 000 km. L'inclinazione dell'asse di rotazione è relativamente piccola, solamente 3,13º, e precede ogni 12 000 anni; di conseguenza, il pianeta non sperimenta significative variazioni stagionali, contrariamente a quanto accade sulla Terra e su Marte. Poiché Giove non è un corpo solido, la sua atmosfera superiore è soggetta ad una rotazione differenziale: infatti, la rotazione delle regioni polari del pianeta è più lunga di circa 5 minuti rispetto a quella all'equatore. Sono stati adottati tre sistemi di riferimento per monitorare la rotazione delle strutture atmosferiche permanenti. Il sistema I si applica alle latitudini comprese tra 10º N e 10º S; il suo periodo di rotazione è il più breve del pianeta, pari a 9 h 50 min 30,0 s. Il sistema II si applica a tutte le latitudini a nord e a sud di quelle del sistema I; il suo periodo è pari a 9 h 55 min 40,6 s. Il sistema III fu originariamente definito tramite osservazioni radio e corrisponde alla rotazione della magnetosfera del pianeta; la sua durata è presa come il periodo di rotazione "ufficiale" del pianeta (9 h 55 min 29,685 s); Giove quindi presenta la rotazione più rapida di tutti i pianeti del sistema solare. L'alta velocità di rotazione è all'origine di un marcato rigonfiamento equatoriale, facilmente visibile anche tramite un telescopio amatoriale; questo rigonfiamento è causato dall'alta accelerazione centripeta all'equatore, pari a circa 1,67 m/s², che, combinata con l'accelerazione di gravità media del pianeta (24,79 m/s²), dà un'accelerazione risultante pari a 23,12 m/s²: di conseguenza, un ipotetico oggetto posto all'equatore del pianeta peserebbe meno rispetto ad un corpo di identica massa posto alle medie latitudini. Queste caratteristiche conferiscono quindi al pianeta l'aspetto di uno sferoide oblato, il cui diametro equatoriale è maggiore rispetto al diametro polare: il diametro misurato all'equatore supera infatti di 9275 km il diametro misurato ai poli. Dopo la formazione del Sole, avvenuta circa 4,6 miliardi di anni fa, il materiale residuato dal processo, ricco in polveri metalliche, si è disposto in un disco circumstellare da cui hanno avuto origine dapprima i planetesimi, quindi, per aggregazione di questi ultimi, i protopianeti. La formazione di Giove ha avuto inizio a partire dalla coalescenza di planetesimi di natura ghiacciata poco al di là della cosiddetta frost line, una linea oltre la quale si addensarono i planetesimi costituiti in prevalenza da materiale a basso punto di fusione;[91] la frost line ha agito da barriera, provocando un rapido accumulo di materia a circa 5 au dal Sole. L'embrione planetario così formato, di massa pari ad almeno 10 masse terrestri (M⊕), ha iniziato ad accrescere materia gassosa a partire dall'idrogeno e dall'elio avanzati dalla formazione del Sole e confinati nelle regioni periferiche del sistema dal vento della stella neoformata. Il tasso di accrescimento dei planetesimi, inizialmente più intenso di quello dei gas, proseguì sino a quando il numero di planetesimi nella fascia orbitale del proto-Giove non andò incontro a una netta diminuzione; a questo punto il tasso di accrescimento dei planetesimi e quello dei gas dapprima raggiunsero valori simili, quindi quest'ultimo iniziò a predominare sul primo, favorito dalla rapida contrazione dell'involucro gassoso in accrescimento e dalla rapida espansione del confine esterno del sistema, proporzionale all'incremento della massa dal pianeta. Il proto-Giove cresce a ritmo serrato sottraendo idrogeno dalla nebulosa solare e raggiungendo in circa mille anni le 150 M⊕ e, dopo qualche migliaio di anni, le definitive 318 M⊕. Il processo di accrescimento del pianeta è stato mediato dalla formazione di un disco circumplanetario all'interno del disco circumsolare; terminato il processo di accrescimento per esaurimento dei materiali volatili, ormai andati a costituire il pianeta, i materiali residui, in prevalenza rocciosi, sono andati a costituire il sistema di satelliti del pianeta, che si è infoltito a seguito della cattura, da parte della grande forza di gravità di Giove, di numerosi altri corpi minori. Conclusa la sua formazione, il pianeta ha subito un processo di migrazione orbitale: il pianeta infatti si sarebbe formato a circa 5,65 UA, circa 0,45 UA (70 milioni di chilometri) più esternamente rispetto ad oggi, e nei 100 000 anni successivi, a causa della perdita del momento angolare dovuta all'attrito con il debole disco di polveri residuato dalla formazione della stella e dei pianeti, sarebbe man mano scivolato verso l'attuale orbita, stabilizzandosi ed entrando in risonanza 5:2 con Saturno. Durante questa fase Giove avrebbe catturato i suoi asteroidi troiani, originariamente oggetti della fascia principale o della fascia di Kuiper destabilizzati dalle loro orbite originarie e vincolati in corrispondenza dei punti lagrangiani L4 ed L5. L'atmosfera superiore di Giove è composta in volume da un 88-92% di idrogeno molecolare e da un 8-12% di elio. Queste percentuali cambiano se si tiene in considerazione la proporzione delle masse dei singoli elementi e composti, dal momento che l'atomo di elio è circa quattro volte più massiccio dell'atomo di idrogeno; l'atmosfera gioviana è quindi costituita da un 75% in massa di idrogeno e da un 24% di elio, mentre il restante 1% è costituito da altri elementi e composti presenti in quantità molto più esigue. La composizione varia leggermente man mano che si procede verso le regioni interne del pianeta, date le alte densità in gioco; alla base dell'atmosfera si ha quindi un 71% in massa di idrogeno, un 24% di elio e il restante 5% di elementi più pesanti e composti: vapore acqueo, ammoniaca, composti del silicio, carbonio e idrocarburi (soprattutto metano ed etano), acido solfidrico, neon, ossigeno, fosforo e zolfo. Nelle regioni più esterne dell'atmosfera sono inoltre presenti dei consistenti strati di cristalli di ammoniaca solida. Le proporzioni atmosferiche di idrogeno ed elio sono molto vicine a quelle riscontrate nel Sole e teoricamente predette per la nebulosa solare primordiale; tuttavia le abbondanze dell'ossigeno, dell'azoto, dello zolfo e dei gas nobili sono superiori di un fattore tre rispetto ai valori misurati nel Sole; invece la quantità di neon nell'alta atmosfera è pari in massa solamente a 20 parti per milione, circa un decimo rispetto alla sua quantità nella stella. Anche la quantità di elio appare decisamente inferiore, presumibilmente a causa di precipitazioni che, secondo le simulazioni, interessano una porzione abbastanza profonda dell'atmosfera gioviana in cui il gas condensa in goccioline anziché mescolarsi in modo omogeneo con l'idrogeno. Le quantità dei gas nobili di peso atomico maggiore (argon, kripton, xeno, radon) sono circa due o tre volte quelle della nostra stella. Giove possiede il maggior volume per una massa fredda: i dati teorici indicano che se il pianeta fosse più massiccio avrebbe dimensioni minori. Infatti, a basse densità della materia come quelle del pianeta, l'oggetto è mantenuto tale da forze di natura elettromagnetica: gli atomi interagiscono tra loro formando dei legami. Se la massa è piuttosto grande, come quella di Giove, la gravità al centro del corpo è talmente elevata che la materia è ionizzata: gli elettroni degli orbitali sono strappati all'attrazione dei loro nuclei e sono liberi di muoversi, rendendo impossibile la formazione di legami. Pertanto, l'incremento di gravità dovuto all'aumento di massa non è più esattamente controbilanciato e il pianeta subisce una contrazione. Un ulteriore aumento di massa provoca la degenerazione degli elettroni, costretti a occupare il livello quantico ad energia più bassa disponibile. Gli elettroni obbediscono al principio di esclusione di Pauli; di conseguenza sono di norma obbligati a occupare una banda piuttosto vasta di livelli a bassa energia. In questa circostanza, quindi, le strutture atomiche sono alterate dalla crescente gravità, che costringe tale banda ad allargarsi, sicché la sola pressione degli elettroni degeneri manterrebbe in equilibrio il nucleo contro il collasso gravitazionale cui sarebbe naturalmente soggetto. Giove è il pianeta più massiccio del sistema solare, 2 volte e mezzo più massiccio di tutti gli altri pianeti messi insieme; la sua massa è tale che il baricentro del sistema Sole-Giove cade esternamente alla stella, precisamente a 47 500 km (0,068 R☉) dalla sua superficie. Il valore della massa gioviana (indicata con MJ) è utilizzato come raffronto per le masse degli altri pianeti gassosi ed in particolare dei pianeti extrasolari. In raffronto alla Terra, Giove è 317,938 volte più massiccio, ha un volume 1 319 volte superiore ma una densità più bassa, appena superiore a quella dell'acqua: 1,319 × 10³ kg/m³ contro i 5,5153 × 10³ kg/m³ della Terra. Il diametro è 11,2008 volte maggiore di quello terrestre.Giove si comprime di circa 2 cm all'anno. Probabilmente alla base di questo fenomeno sta il meccanismo di Kelvin-Helmholtz: il pianeta compensa, comprimendosi in maniera adiabatica, la dispersione nello spazio del calore endogeno. Questa compressione riscalda il nucleo, incrementando la quantità di calore emessa; il risultato è che il pianeta irradia nello spazio una quantità di energia superiore a quella che riceve per insolazione, con un rapporto emissione/insolazione stimato in 1,67 ± 0,09. Per queste ragioni, si ritiene che, appena formato, il pianeta dovesse essere più caldo e grande di circa il doppio rispetto ad ora. Giove ha il maggior volume possibile per una massa fredda. Tuttavia i modelli teorici indicano che se Giove fosse più massiccio avrebbe un diametro inferiore a quello che possiede attualmente. Questo comportamento varrebbe fino a masse comprese tra 10 e 50 volte la massa di Giove; oltre questo limite, infatti, ulteriori aumenti di massa determinerebbero aumenti effettivi di volume e causerebbero il raggiungimento di temperature, nel nucleo, tali da innescare la fusione del deuterio (13MJ) e del litio (65MJ): si forma così una nana bruna. Qualora l'oggetto raggiungesse una massa pari a circa 75-80 volte quella di Giove si raggiungerebbe la massa critica per l'innesco di reazioni termonucleari di fusione dell'idrogeno in elio, che porterebbe alla formazione di una stella, nella fattispecie una nana rossa. Anche se Giove dovrebbe essere circa 75 volte più massiccio per essere una stella, il diametro della più piccola stella sinora scoperta, AB Doradus C, è solamente il 40% più grande rispetto al diametro del pianeta. La struttura interna del pianeta è oggetto di studi da parte degli astrofisici e dei planetologi; si ritiene che il pianeta sia costituito da più strati, ciascuno con caratteristiche chimico-fisiche ben precise. Partendo dall'interno verso l'esterno si incontrano, in sequenza: un nucleo, un mantello di idrogeno metallico liquido, uno strato di idrogeno molecolare liquido, elio ed altri elementi, ed una turbolenta atmosfera. Secondo i modelli astrofisici più moderni e ormai accettati da tutta la comunità scientifica, Giove non possiede una crosta solida; il gas atmosferico diventa sempre più denso procedendo verso l'interno e gradualmente si converte in liquido, al quale si aggiunge una piccola percentuale di elio, ammoniaca, metano, zolfo, acido solfidrico ed altri composti in percentuale minore. La temperatura e la pressione all'interno di Giove aumentano costantemente man mano che si procede verso il nucleo. Al nucleo del pianeta è spesso attribuita una natura rocciosa, ma la sua composizione dettagliata, così come le proprietà dei materiali che lo costituiscono e le temperature e le pressioni cui sono soggetti, e persino la sua stessa esistenza, sono ancora in gran parte oggetto di speculazione. Secondo i modelli, il nucleo, con una massa stimata in 14-18 M⊕, sarebbe costituito in prevalenza da carbonio e silicati, con temperature stimate sui 36 000 K e pressioni dell'ordine dei 4500 gigapascal (GPa). La regione nucleare è circondata da un denso mantello di idrogeno liquido metallico, che si estende sino al 78% (circa i 2/3) del raggio del pianeta ed è sottoposto a temperature dell'ordine dei 10 000 K e pressioni dell'ordine dei 200 GPa. Al di sopra di esso si trova un cospicuo strato di idrogeno liquido e gassoso, che si estende sino a 1000 km dalla superficie e si fonde con le parti più interne dell'atmosfera del pianeta. L'atmosfera di Giove è la più estesa atmosfera planetaria del sistema solare; manca di un netto confine inferiore, ma gradualmente transisce negli strati interni del pianeta. Dal più basso al più alto, gli stati dell'atmosfera sono: troposfera, stratosfera, termosfera ed esosfera; ogni strato è caratterizzato da un gradiente di temperatura specifico. Al confine tra la troposfera e la stratosfera, ovvero la tropopausa, è collocato un sistema complicato di nubi e foschie costituito da stratificazioni di ammoniaca, idrosolfuro di ammonio ed acqua. La copertura nuvolosa di Giove è spessa circa 50 km e consiste almeno di due strati di nubi di ammoniaca: uno strato inferiore piuttosto denso ed una regione superiore più rarefatta. I sistemi nuvolosi sono organizzati in fasce orizzontali lungo le diverse latitudini. Si suddividono in zone, di tonalità chiara, e bande, le quali appaiono scure per via della presenza su di esse di una minore copertura nuvolosa rispetto alle zone. La loro interazione dà luogo a violente tempeste, i cui venti raggiungono, come nel caso delle correnti a getto delle zone, velocità superiori ai 100-120 m/s (360-400 km/h). Le osservazioni del pianeta hanno mostrato che tali formazioni variano nel tempo in spessore, colore e attività, ma mantengono comunque una certa stabilità, in virtù della quale gli astronomi le considerano delle strutture permanenti e hanno deciso di assegnare loro una nomenclatura. Le bande sono inoltre occasionalmente interessate da fenomeni, noti come disturbi, che ne frammentano il decorso; uno di questi fenomeni interessa a intervalli irregolari di 3-15 anni la banda equatoriale meridionale (South Equatorial Belt, SEB), la quale improvvisamente "scompare", dal momento che vira sul colore bianco rendendosi indistinguibile dalle chiare zone circostanti, per poi tornare otticamente individuabile nel giro di alcune settimane o mesi. La causa dei disturbi è attribuita alla momentanea sovrapposizione con le bande interessate di alcuni strati nuvolosi posti ad una quota maggiore. La caratteristica colorazione marrone-arancio delle nubi gioviane è causata da composti chimici complessi, noti come cromofori, che emettono luce in questo colore quando sono esposti alla radiazione ultravioletta solare. L'esatta composizione di queste sostanze rimane incerta, ma si ritiene che vi siano discrete quantità di fosforo, zolfo ed idrocarburi complessi; questi composti colorati si mescolano con lo strato di nubi più profondo e più caldo. Il caratteristico bandeggio si forma a causa della convezione atmosferica: nelle zone si ha l'emergere in superficie delle celle convettive dell'atmosfera inferiore, che determina la cristallizzazione dell'ammoniaca che di conseguenza cela alla vista gli strati immediatamente sottostanti; nelle bande invece il movimento convettivo è discendente ed avviene in regioni a temperatura più alte.È stata ipotizzata la presenza di un sottile strato di vapore acqueo al di sotto delle nubi di ammoniaca, come dimostrerebbero i fulmini registrati dalla sonda Galileo, che raggiungono intensità anche decine di migliaia di volte superiori a quelle dei fulmini terrestri: la molecola dell'acqua, essendo polare, è infatti capace di assumere una parziale carica in grado di creare la differenza di potenziale necessaria per generare la scarica. Le nubi d'acqua, grazie all'apporto del calore interno del pianeta, possono quindi formare dei complessi temporaleschi simili a quelli terrestri. I fulmini gioviani, in precedenza studiati visivamente o in onde radio dalle sonde Voyager 1 e 2, Galileo, Cassini, sono stati oggetto di analisi approfondite dalla sonda Juno in un ampio spettro di frequenze e a quote molto inferiori. Tali studi hanno evidenziato un'attività temporalesca ben diversa da quella terrestre: su Giove l'attività è più concentrata vicino ai poli e quasi assente in prossimità dell'equatore. Questo è dovuto alla maggiore instabilità atmosferica presente ai poli gioviani che, pur essendo meno calda dell'area equatoriale, consente ai gas caldi provenienti dall'interno del pianeta di salire in quota favorendo la convezione. Giove, in virtù della sua seppur bassa inclinazione assiale, espone i propri poli a una radiazione solare inferiore, anche se di poco, rispetto a quella delle regioni equatoriali; la convezione all'interno del pianeta trasporta tuttavia più energia ai poli, bilanciando le temperature degli strati nuvolosi alle diverse latitudini. L'atmosfera di Giove ospita centinaia di vortici, strutture rotanti circolari che, come nell'atmosfera della Terra, possono essere divisi in due classi: cicloni ed anticicloni; i primi ruotano nel verso di rotazione del pianeta (antiorario nell'emisfero settentrionale ed orario in quello meridionale), mentre i secondi nel verso opposto. Una delle principali differenze con l'atmosfera terrestre è che su Giove gli anticicloni dominano numericamente sui cicloni, dal momento che il 90% dei vortici con un diametro superiore ai 2000 km sono anticicloni. La durata dei vortici varia da diversi giorni a centinaia di anni in base alle dimensioni: per esempio, la durata media di anticicloni con diametri compresi tra i 1000 ed i 6000 km è di 1-3 anni. Non sono mai stati osservati vortici nella regione equatoriale di Giove (entro i 10° di latitudine), in quanto la circolazione atmosferica di tale regione li renderebbe instabili. Come accade su ogni pianeta rapidamente rotante, gli anticicloni su Giove sono centri di alta pressione, mentre i cicloni lo sono di bassa pressione. Il vortice sicuramente più noto è la Grande Macchia Rossa (GRS, dall'inglese Great Red Spot), una vasta tempesta anticiclonica posta 22º a sud dell'equatore del pianeta. La formazione presenta un aspetto ovale e ruota in senso antiorario con un periodo di circa sei giorni. Le sue dimensioni, variabili, sono 24-40 000 km × 12-14 000 km: è quindi abbastanza grande da essere visibile già con telescopi amatoriali. Si tratta di una struttura svincolata da altre formazioni più profonde dell'atmosfera planetaria: le indagini infrarosse hanno mostrato che la tempesta è più fredda rispetto alle zone circostanti, segno che si trova più in alto rispetto ad esse: lo strato più alto di nubi della GRS infatti svetta di circa 8 km sugli strati circostanti. Anche prima che le sonde Voyager dimostrassero che si trattava di una tempesta, vi era già una forte evidenza che la Macchia fosse una struttura a sé stante, come d'altronde appariva dalla sua rotazione lungo il pianeta tutto sommato indipendente dal resto dell'atmosfera. La Macchia varia notevolmente di gradazione, passando dal rosso mattone al salmone pastello, e talvolta anche al bianco; non è ancora noto cosa determini la colorazione rossa della macchia. Alcune teorie, suffragate dai dati sperimentali, suggeriscono che possa essere causata dai medesimi cromofori, in quantità differenti, presenti nel resto dell'atmosfera gioviana. Non è noto se i cambiamenti che la Macchia manifesta siano il risultato di normali fluttuazioni periodiche, né tanto meno per quanto ancora essa durerà; i modelli fisico-matematici suggeriscono però che la tempesta sia stabile e quindi possa costituire, al contrario di altre, una formazione permanente del pianeta. Tempeste simili a questa, anche se temporanee, non sono infrequenti nelle atmosfere dei pianeti giganti gassosi: per esempio, Nettuno ha posseduto per un certo tempo una Grande Macchia Scura, e Saturno mostra periodicamente per brevi periodi delle Grandi Macchie Bianche. Anche Giove presenta degli ovali bianchi (detti WOS, acronimo di White Oval Spots, Macchie Ovali Bianche), assieme ad altri marroni; si tratta tuttavia di tempeste minori transitorie, per questo prive di una denominazione. Gli ovali bianchi sono in genere composti da nubi relativamente fredde poste nell'alta atmosfera; gli ovali marroni sono invece più caldi, e si trovano ad altitudini medie. La durata di queste tempeste si aggira indifferentemente tra poche ore o molti anni. Nel 2000, nell'emisfero australe del pianeta, si è originata dalla fusione di tre ovali bianchi una formazione simile alla GRS, ma di dimensioni più piccole. Denominata tecnicamente Ovale BA, la formazione ha subito un'intensificazione dell'attività e un cambiamento di colore dal bianco al rosso, che le è valso il soprannome di Red Spot Junior. Infine Juno ha scoperto 8 vortici uguali al polo nord disposti ai vertici di un ottagono (l'ottagono di Giove), con al centro un nono vortice, e 5 vortici uguali al polo sud disposti come i vertici di un pentagono (il pentagono di Giove), con al centro un sesto vortice, poi trasformatosi in un esagono. Sono simili all'esagono di Saturno. Le correnti elettriche all'interno del mantello di idrogeno metallico generano un campo magnetico dipolare, inclinato di 10º rispetto all'asse di rotazione del pianeta. Il campo raggiunge un'intensità variabile tra 0,42 millitesla - mT - all'equatore e 1,3 mT ai poli, che lo rende il più intenso campo magnetico del sistema solare (con l'eccezione di quello nelle macchie solari), 14 volte superiore al campo geomagnetico. Il campo magnetico di Giove preserva la sua atmosfera dalle interazioni col vento solare deflettendolo e creando una regione appiattita, la magnetosfera, costituita da un plasma di composizione molto differente da quello del vento solare. La magnetosfera gioviana è la più grande e potente fra tutte le magnetosfere dei pianeti del sistema solare, nonché la struttura più grande del sistema non appartenente al Sole: si estende nel sistema solare esterno per molte volte il raggio di Giove (RJ) e raggiunge un'ampiezza massima che può superare l'orbita di Saturno. La magnetosfera di Giove è convenzionalmente divisa in tre parti: la magnetosfera interna, intermedia ed esterna. La magnetosfera interna è situata ad una distanza inferiore a 10 raggi gioviani (RJ) dal pianeta; il campo magnetico al suo interno rimane sostanzialmente dipolare, poiché ogni contributo proveniente dalle correnti che fluiscono dal plasma magnetosferico equatoriale risulta piccolo. Nelle regioni intermedie (tra 10 e 40 RJ) ed esterne (oltre 40 RJ) il campo magnetico non è più dipolare e risulta seriamente disturbato dalle sue interazioni col plasma solare. Le eruzioni che avvengono sul satellite galileiano Io contribuiscono ad alimentare la magnetosfera gioviana generando un importante toroide di plasma, che carica e rafforza il campo magnetico formando la struttura denominata magnetodisk. Le forti correnti che circolano nella regione interna della magnetosfera danno origine ad intense fasce di radiazione, simili alle fasce di van Allen terrestri, ma migliaia di volte più potenti. Queste forze generano delle aurore perenni attorno ai poli del pianeta ed intense emissioni radio. L'interazione delle particelle energetiche con la superficie delle lune galileiane maggiori influenza notevolmente le loro proprietà chimiche e fisiche, ed entrambi influenzano e sono influenzati dal particolare moto del sottile sistema di anelli del pianeta. Ad una distanza media di 75 RJ (compresa tra circa 45 e 100 RJ a seconda del periodo del ciclo solare) dalla sommità delle nubi del pianeta è presente una lacuna tra il plasma del vento solare e il plasma magnetosferico, che prende il nome di magnetopausa. Al di là di essa, ad una distanza media di 84 RJ dal pianeta, si trova il bow shock, il punto in cui il flusso del vento viene deflesso dal campo magnetico. Giove possiede un debole sistema di anelli planetari, il terzo ad esser stato scoperto nel sistema solare, dopo quello di Saturno e quello di Urano. Fu osservato per la prima volta nel 1979 dalla sonda Voyager 1, ma fu analizzato più approfonditamente negli anni novanta dalla sonda Galileo e, a seguire, dal telescopio spaziale Hubble e dai più grandi telescopi di Terra. Il sistema di anelli consiste principalmente di polveri, presumibilmente silicati. È suddiviso in quattro parti principali: un denso toro di particelle noto come anello di alone; una fascia relativamente brillante, ma eccezionalmente sottile nota come anello principale; due deboli fasce più esterne, detti anelli Gossamer (letteralmente garza), che prendono il nome dai satelliti il cui materiale superficiale ha dato origine a questi anelli: Amaltea (anello Gossamer di Amaltea) e Tebe (anello Gossamer di Tebe). L'anello principale e l'anello di alone sono costituiti da polveri originarie dei satelliti Metis e Adrastea ed espulse nello spazio in seguito a violenti impatti meteorici. Le immagini ottenute nel febbraio e nel marzo 2007 dalla missione New Horizons hanno mostrato inoltre che l'anello principale possiede una ricca struttura molto fine. All'osservazione nel visibile e nell'infrarosso vicino gli anelli hanno un colore tendente al rosso, eccezion fatta per l'anello di alone, che appare di un colore neutro o comunque tendente al blu. Le dimensioni delle polveri che compongono il sistema sono variabili, ma è stata riscontrata una netta prevalenza di polveri di raggio pari a circa 15 μm in tutti gli anelli tranne in quello di alone, probabilmente dominato da polveri di dimensioni nanometriche. La massa totale del sistema di anelli è scarsamente conosciuta, ma è probabilmente compresa tra 1011 e 1016 kg. L'età del sistema è sconosciuta, ma si ritiene che esista sin dalla formazione del pianeta madre. Oltre al sistema di satelliti, il campo gravitazionale di Giove controlla numerosi asteroidi, detti asteroidi troiani, che sono vincolati in corrispondenza di alcuni punti di equilibrio del sistema gravitazionale Sole-Giove, i punti di Lagrange, in cui l'attrazione complessiva è nulla. In particolare, il maggiore addensamento di asteroidi si ha in corrispondenza dei punti L4 ed L5 (che, rispettivamente, precede e segue di 60º Giove nel suo tragitto orbitale), poiché il triangolo di forze con vertici Giove-Sole-L4 oppure Giove-Sole-L5 permette ad essi di avere un'orbita stabile. Gli asteroidi troiani si distribuiscono in due regioni oblunghe e curve attorno ai punti lagrangiani, e possiedono orbite attorno al Sole con semiasse maggiore medio di circa 5,2 au. Il primo asteroide troiano, 588 Achilles, fu scoperto nel 1906 da Max Wolf; attualmente se ne conoscono oltre 4000, ma si ritiene che il numero di troiani più grandi di 1 km sia dell'ordine del milione, vicino a quello calcolato per gli asteroidi più grandi di 1 km nella fascia principale. Come nella maggior parte delle cinture asteroidali, i troiani si raggruppano in famiglie. I troiani di Giove sono degli oggetti oscuri con spettri tendenti al rosso e privi di formazioni, che non rivelano la presenza certa di acqua o composti organici. I nomi degli asteroidi troiani di Giove derivano da quelli degli eroi che, secondo la mitologia greca, presero parte alla Guerra di Troia; i troiani di Giove si dividono in due gruppi principali: il campo greco (o gruppo di Achille), posto sul punto L4, in cui gli asteroidi hanno i nomi degli eroi greci, e il campo troiano (o gruppo di Patroclo), sul punto L5, i cui asteroidi hanno il nome degli eroi troiani. Tuttavia, alcuni asteroidi non seguono questo schema: 617 Patroclus e 624 Hektor vennero denominati prima che venisse scelto di operare questa divisione; di conseguenza, un eroe greco appare nel campo troiano e un eroe troiano si trova nel campo greco. Nel 1953 il neolaureato Stanley Miller e il suo professore Harold Urey realizzarono un esperimento che provò che molecole organiche si sarebbero potute formare spontaneamente sulla Terra primordiale a partire da precursori inorganici. In quello che è passato alla storia come l'"esperimento di Miller-Urey" si fece uso di una soluzione gassosa altamente riducente, contenente metano, ammoniaca, idrogeno e vapore acqueo, per formare, sotto l'esposizione di una scarica elettrica continua (che simulava i frequenti fulmini che dovevano squarciare i cieli della Terra primitiva), sostanze organiche complesse e alcuni monomeri di macromolecole fondamentali per la vita, come gli amminoacidi delle proteine. Poiché la composizione dell'atmosfera di Giove ricalca quella che doveva essere la composizione dell'atmosfera terrestre primordiale e al suo interno avvengono con una certa frequenza intensi fenomeni elettrici, lo stesso esperimento è stato replicato per verificarne le potenzialità nel generare le molecole che stanno alla base della vita. Tuttavia, la forte circolazione verticale dell'atmosfera gioviana porterebbe via gli eventuali composti che si verrebbero a produrre nelle zone basse dell'atmosfera del pianeta; inoltre, le elevate temperature di queste regioni provocherebbero la decomposizione di queste molecole, impedendo in tal modo la formazione della vita così come la conosciamo. Per queste ragioni, si ritiene altamente improbabile che su Giove vi possa essere vita simile a quella terrestre, anche in forme molto semplici come i procarioti, per via degli scarsi quantitativi d'acqua, per l'assenza di una superficie solida e per le altissime pressioni che si riscontrano nelle aree interne. Tuttavia nel 1976, prima delle missioni Voyager, si ipotizzava che nelle regioni più alte dell'atmosfera gioviana potessero evolversi delle forme di vita basate sull'ammoniaca e su altri composti dell'azoto; la congettura è stata formulata prendendo spunto dall'ecologia dei mari terrestri, in cui, a ridosso della superficie, si addensano semplici organismi fotosintetici, come il fitoplancton, subito al di sotto dei quali si trovano i pesci che si cibano di essi, e più in profondità i predatori marini che si nutrono dei pesci. I tre ipotetici equivalenti di questi organismi su Giove sono stati definiti da Sagan e Salpeter rispettivamente "galleggiatori", "sprofondatori" e "cacciatori" (in lingua inglese, floaters, sinkers e hunters), e sono stati immaginati come delle creature simili a bolle di dimensioni gigantesche che si muovono per propulsione, espellendo l'elio atmosferico. I dati forniti dalle due Voyager nel 1979 hanno confermato la non idoneità del gigante gassoso a supportare eventuali forme di vita. 

Approfondiamo: la formazione di Giove

Le modalità che hanno condotto alla formazione di Giove ricalcano grossomodo le medesime modalità attraverso cui si originano i pianeti gassosi secondo il modello della nebulosa solare. Dopo la formazione del Sole, iniziata circa 4,6 miliardi di anni fa, il materiale residuato dal processo, ricco in metalli, si è disposto in un disco circumstellare da cui hanno avuto origine dapprima i planetesimi, quindi, per aggregazione di questi ultimi, i protopianeti. Giove si è originato dalla coalescenza dei planetesimi posti al di là di quella che i planetologi definiscono frost line, una linea oltre la quale si addensano i materiali volatili, a basso punto di fusione. La fusione di numerosi planetesimi ghiacciati diede origine, appena oltrepassata la frost line, ad un grande embrione planetario, che, secondo uno studio pubblicato nel novembre 2008, possedeva una massa di circa 10-18 masse terrestri (M⊕).

 In seguito, l'embrione iniziò ad accrescere la propria a ritmo serrato sottraendo idrogeno ed elio dall'involucro gassoso residuato dalla formazione del Sole e raggiungendo, in breve tempo, la sua massa attuale (318 M⊕). Il processo di accrescimento del pianeta è stato mediato dalla formazione di un disco circumplanetario; terminato tale il processo per l'esaurimento dei materiali volatili, ormai andati a costituire l'atmosfera del pianeta, i materiali residui, in prevalenza rocciosi, sono andati a costituire il sistema di satelliti che circonda il pianeta, che successivamente si è infoltito in seguito alla cattura, da parte della grande forza di gravità di Giove, di numerosi corpi minori. Il Sole e il sistema solare si sono originati a partire dal collasso di un'estesa nube molecolare del Braccio di Orione a causa dell'esplosione nelle sue vicinanze, circa 4,7 miliardi di anni fa, di una o più supernovae. È accertato che, circa 4,57 miliardi di anni fa, il rapido collasso della nube portò alla formazione di una generazione di giovanissime stelle T Tauri, tra le quali anche il Sole, che, subito dopo la sua formazione, assunse un'orbita quasi circolare attorno al centro della Via Lattea, ad una distanza media di circa 26 000 a.l. Le inclusioni ricche di calcio e alluminio, residuate dalla formazione stellare, formarono poi un disco protoplanetario attorno alla stella nascente. All'interno del disco circumstellare ebbe inizio il processo di formazione planetaria; il modello correntemente accettato dalla comunità scientifica, quello della nebulosa solare, prevede che i pianeti si siano formati a partire dalla coalescenza delle polveri originarie che orbitavano attorno alla stella nascente. Tramite contatto diretto, le particelle di polvere iniziarono ad ingrandirsi raggiungendo dimensioni dell'ordine del chilometro; questi grossi frammenti rocciosi collisero tra di loro a formare corpi più grandi, i planetesimi. Le continue collisioni e fusioni dei planetesimi portavano alla formazione di corpi di dimensioni sempre maggiori, sino ai primi protopianeti, che si formarono nell'arco di alcuni milioni di anni. Nel sistema solare interno, date le elevate temperature, si concentrarono i planetesimi costituiti da elementi e composti ad alto punto di fusione, in particolare metalli (come ferro, nichel ed alluminio) e silicati rocciosi; da questi planetesimi ebbero origine i pianeti terrestri. Nelle regioni esterne del sistema solare, al di là della cosiddetta frost line (chiamata anche limite delle nevi, una regione posta a circa 5 unità astronomiche -UA- dal Sole), le temperature più basse favorirono l'accumularsi di planetesimi costituiti da sostanze a basso punto di fusione (come l'acqua); questi planetesimi ghiacciati fornirono la base per la formazione dei giganti gassosi. La quantità di planetesimi ghiacciati era di gran lunga superiore a quella dei planetesimi rocciosi, il che permise ai protopianeti gassosi di raggiungere una massa sufficiente per innescare il processo di accrescimento ed accumulare le ingenti quantità di idrogeno ed elio, presenti in abbondanza in queste regioni del sistema, che andarono a costituire le loro vaste atmosfere. La formazione di Giove ha avuto inizio a partire dalla coalescenza di planetesimi di natura ghiacciata poco al di là della frost line; dunque, durante le prime fasi della sua formazione il pianeta consisteva soprattutto di materiale solido, con una certa quantità di gas, che venivano prelevati dall'involucro di idrogeno ed elio, residuati dalla formazione del Sole, confinato dalla radiazione e dal vento della stella in queste regioni del sistema planetario. La formazione di Giove è quindi una combinazione tra l'accrescimento dei planetesimi e l'accumulo di gas dalla nebulosa solare: difatti, l'accrescimento dei gas attorno all'embrione planetario è stato mediato dalla formazione di una struttura discoidale, il disco circumplanetario o protolunare, considerabile una sorta di disco protoplanetario in miniatura. L'accrescimento dei planetesimi, che inizialmente avveniva ad un tasso più intenso rispetto a quello dei gas, è proseguito sino a quando il numero di corpi rocciosi all'interno della fascia orbitale in cui ha avuto luogo la formazione del pianeta non ha subito un notevole decremento; ha avuto origine in questo modo un grande embrione planetario con una massa che, secondo le simulazioni computerizzate, ammontava a circa 10-18 masse terrestri (M⊕).[4] A questo punto il tasso di accrescimento dei planetesimi e quello dei gas hanno inizialmente raggiunto valori simili, quindi quest'ultimo ha iniziato a predominare sul primo, favorito dalla rapida contrazione dell'involucro gassoso in accrescimento e dalla rapida espansione del confine esterno del sistema, dipendente dalla massa totale raggiunta dal pianeta.[13] Il proto-Giove crebbe a ritmo serrato sottraendo idrogeno dalla nebulosa solare e raggiunse in meno di mille anni le 150 M⊕, quindi, in altrettanto tempo, le definitive 318 M⊕.[3] Secondo gli astrofisici non è un caso il fatto che Giove giaccia appena al di là della frost line: infatti, poiché in questo distretto del sistema solare si accumularono grandi quantità di acqua per via della sublimazione del materiale ghiacciato che precipitava verso le regioni interne del sistema solare in formazione, si venne a creare una regione di bassa pressione che incrementò la velocità delle particelle orbitanti frenando il loro moto di caduta verso il Sole. In effetti, la frost line ha agito da barriera, provocando un rapido accumulo di materia a ~5 UA dal Sole. La formazione del disco circumplanetario ha segnato la fase di transizione tra lo stadio di accrescimento indiscriminato dalla nebulosa solare e l'isolamento del pianeta dal disco protoplanetario, che ha segnato la cessazione del processo di accrescimento del pianeta. La fase di isolamento ha avuto inizio quando Giove ha consumato la maggior parte dei gas della sua regione orbitale iniziando a "scavare" una lacuna nel denso mezzo interplanetario che costituiva il disco protoplanetario. I satelliti regolari costituirebbero i resti di un'antica popolazione di satelliti di massa simile agli attuali satelliti medicei che si sarebbero formati a partire dalla coalescenza delle polveri del circumplanetario. Le simulazioni sembrano indicare che il disco circumplanetario, nonostante all'inizio avesse una massa relativamente bassa, abbia vincolato e rielaborato con l'avanzare del tempo una sostanziale frazione della massa che il nascente Giove acquisiva dai resti della nebulosa solare. Tuttavia, stando alle masse dei satelliti regolari, la massa del disco sarebbe dovuta essere pari ad appena il 2% della massa del pianeta, un valore molto basso;[5] pertanto, si ritiene che possano essere esistite, nella storia primordiale del pianeta, diverse generazioni di satelliti (si presume almeno quattro oltre la presente) di massa paragonabile a quella dei medicei, ciascuna delle quali sarebbe poi precipitata verso il pianeta a causa delle interazioni con la cintura circumplanetaria, mentre i nuovi satelliti si formavano a partire dalle nuove polveri catturate dal pianeta in formazione. Nel corso di questo turn-over satellitare, la mole delle polveri che costituivano il disco si sarebbe enormemente ridotta, tanto che l'attuale quantitativo di polveri vincolato nel sistema di Giove non arriva a svolgere una paragonabile azione interferenziale nei confronti delle orbite dei satelliti che costituiscono l'attuale generazione (presumibilmente la quinta). L'odierna generazione di satelliti si sarebbe formata ad una distanza maggiore di quella attuale e sarebbe lentamente scivolata nella posizione attuale a causa della perdita del momento angolare dovuta all'attrito col disco in fase di assottigliamento, da cui avrebbero acquisito ulteriore materiale. La discesa verso le attuali orbite si sarebbe arrestata allo stabilirsi della risonanza orbitale che attualmente vincola Io, Europa e Ganimede; la maggiore massa di quest'ultimo rende ragionevole l'ipotesi che il satellite sia migrato con una velocità superiore rispetto ad Io ed Europa. I satelliti più esterni, gli irregolari, si sarebbero formati dalla cattura di asteroidi di passaggio mentre il disco circumplanetario era ancora abbastanza massiccio da assorbire buona parte della loro quantità di moto e catturarli in orbita al suo interno. Buona parte di questi corpi si sono frantumati a seguito di stress mareali durante la cattura o a causa di collisioni con altri oggetti più piccoli, producendo le famiglie satellitari oggi visibili. 

Il modello di Nizza

Le simulazioni computerizzate, condotte per comprendere i meccanismi che hanno portato alla loro peculiare orbita i cosiddetti pianeti gioviani caldi, hanno mostrato che anche Giove ha subito un processo di migrazione planetaria poco dopo la sua formazione. Il pianeta si sarebbe formato a circa 5,65 UA da Sole e nei 100.000 anni successivi, in seguito alla perdita di momento angolare causata dall'attrito con le polveri residue del disco protoplanetario, sarebbe man mano scivolato più internamente di circa 0,45 UA (70 milioni di chilometri), stabilizzandosi nell'attuale orbita ed entrando in risonanza 1:2 con Saturno. La principale prova di questo fenomeno è fornita da un gruppo di circa 700 asteroidi appartenenti alla famiglia Hilda, che sono in risonanza 3:2 con Giove e possiedono, per la stragrande maggioranza, delle orbite altamente ellittiche ed eccentriche attorno al Sole. Le simulazioni indicano che il gigante gassoso, durante la sua migrazione, abbia perturbato in maniera molto estesa l'orbita circolare degli asteroidi proto-Hilda, eiettandone alcuni fuori dal sistema solare e vincolando i rimanenti nelle attuali orbite eccentriche. Un altro evento quasi sicuramente correlato alla migrazione di Giove è la cattura degli asteroidi troiani. Infatti, la migrazione dei pianeti giganti ha avuto come effetto una destabilizzazione della fascia di Kuiper, che, secondo il modello di Nizza, doveva allora trovarsi in una posizione più interna (come si può evincere dall'immagine al lato), scagliando nel sistema solare interno milioni di corpi minori; inoltre, la loro influenza gravitazionale combinata ha velocemente disturbato qualunque preesistente sistema di asteroidi orbitanti nei punti di Lagrange L4 ed L5. Secondo questa teoria, dunque, l'attuale popolazione di troiani si sarebbe originata a partire dagli oggetti della fascia di Kuiper in fuga mentre Giove e Saturno entravano nella loro attuale risonanza orbitale. 

I satelliti di Giove

Europa

Tra i satelliti più interessanti di Giove c'è Europa. Europa è il quarto satellite naturale del pianeta Giove per dimensioni e il sesto dell'intero sistema solare. È stato scoperto da Galileo Galilei il 7 gennaio 1610 assieme ad Io, Ganimede e Callisto, da allora comunemente noti con l'appellativo di satelliti galileiani. Leggermente più piccolo della Luna, Europa è composto principalmente da silicati con una crosta costituita da acqua ghiacciata, probabilmente al suo interno è presente un nucleo di ferro-nichel ed è circondato esternamente da una tenue atmosfera, composta principalmente da ossigeno. 

Glossario: satellite galileiano o mediceo

Sono comunemente definiti satelliti medicei (o galileiani) i quattro satelliti maggiori di Giove, scoperti da Galileo Galilei e Simon Marius e chiaramente visibili dalla Terra anche tramite piccoli telescopi. Si tratta di Io, Europa, Ganimede e Callisto; Ganimede, in particolare, è così luminoso che se non si trovasse vicino a Giove sarebbe visibile anche ad occhio nudo, di notte, nel cielo terrestre. La prima osservazione di questi satelliti da parte di Galileo risale al 7 gennaio 1610. Dopo numerosi giorni di osservazioni, Galileo concluse che i quattro corpi erano in orbita attorno al pianeta; la scoperta fu un solido argomento a favore della teoria eliocentrica di Niccolò Copernico, perché mostrava che non tutti gli oggetti del sistema solare orbitavano attorno al pianeta Terra.

A differenza di Ganimede e Callisto, la sua superficie si presenta striata e poco ricca di crateri ed è la più liscia di quella di qualsiasi oggetto noto del sistema Solare. Nel 1997 il passaggio della sonda Galileo attraverso un pennacchio d'acqua fuoriuscente da un geyser superficiale ha dimostrato oltre ogni dubbio l'esistenza di un oceano d'acqua presente sotto la crosta, che potrebbe essere dimora per la vita extraterrestre. In questa ipotesi viene proposto che Europa, riscaldato internamente dalle forze mareali causate dalla sua vicinanza a Giove e dalla risonanza orbitale con i vicini Io e Ganimede, rilasci il calore necessario per mantenere un oceano liquido sotto la superficie e stimolando al tempo stesso un'attività geologica simile alla tettonica a placche. L'8 settembre 2014, la NASA riferì di aver trovato prove dell'esistenza di un'attività della tettonica a placche su Europa, la prima attività geologica di questo tipo su un mondo diverso dalla Terra. Nel dicembre del 2013 la NASA individuò sulla crosta di Europa alcuni minerali argillosi, più precisamente, fillosilicati, che spesso sono associati a materiale organico. La stessa NASA annunciò, sulla base di osservazioni effettuate con il Telescopio spaziale Hubble, che sono stati rilevati geyser di vapore acqueo simili a quelli di Encelado, il satellite di Saturno. La sonda Galileo, lanciata nel 1989, fornì la maggior parte delle informazioni note su Europa. Nessun veicolo spaziale è ancora atterrato sulla superficie, ma le sue caratteristiche hanno suggerito diverse proposte di esplorazione, anche molto ambiziose. La Jupiter Icy Moon Explorer dell'Agenzia spaziale europea è una missione per Europa (e per le vicine Io e Ganimede), il cui lancio è previsto per il 2022. La NASA invece sta programmando una missione robotica, che verrebbe lanciata a metà degli anni 2020. Si pensa che sotto la superficie di Europa ci sia uno strato di acqua liquida mantenuta tale dal calore generato dalle "maree" causate dall'interazione gravitazionale con Giove. La temperatura sulla superficie di Europa è di circa 110 K (−163 °C) all'equatore e di solo 50 K (−223 °C) ai poli, cosicché il ghiaccio superficiale è permanentemente congelato. I primi indizi di un oceano liquido sotto la superficie vennero da considerazioni teoriche relative al riscaldamento gravitazionale (conseguenza dell'orbita leggermente eccentrica di Europa e della risonanza orbitale con gli altri satelliti medicei). I membri del team imaging del progetto Galileo hanno analizzato le immagini di Europa della sonda Voyager e della sonda Galileo per affermare che anche le caratteristiche superficiali di Europa dimostrano l'esistenza di un oceano liquido sotto la superficie.L'esempio più eclatante sarebbe il terreno "caotico", una caratteristica comune sulla superficie di Europa che alcuni interpretano come una regione in cui l'oceano sotto la superficie ha sciolto la crosta ghiacciata. Questa interpretazione è estremamente controversa. La maggior parte dei geologi che ha studiato Europa favorisce quello che viene chiamato modello del "ghiaccio spesso" in cui l'oceano ha raramente, se non mai, direttamente interagito con la superficie. I diversi modelli per stimare lo spessore del guscio di ghiaccio danno valori oscillanti tra qualche chilometro e qualche decina di chilometri. La prova migliore per il cosiddetto modello del "ghiaccio spesso" è uno studio dei grandi crateri di Europa. I più grandi sono circondati da cerchi concentrici e sembrano essere riempiti con ghiaccio fresco relativamente liscio; basandosi su questo e sulla quantità di calore generata dalle maree di Europa, è stato teorizzato che la crosta esterna di ghiaccio solido sia spessa approssimativamente 10−30 km, il che potrebbe significare che l'oceano liquido sottostante potrebbe essere profondo circa 100 km. Il modello a "ghiaccio sottile" suggerisce invece che lo strato di ghiaccio di Europa sia spesso solo pochi chilometri. Tuttavia, la maggior parte degli scienziati planetari affermano che questo modello considera che solo i più alti strati della crosta di Europa si comportino elasticamente quando colpiti dalla marea di Giove. Questo modello suggerisce che la parte elastica esterna della crosta di ghiaccio potrebbe essere sottile solo 200 metri. Se lo strato di ghiaccio di Europa fosse spesso solo pochi chilometri, come propone il modello "ghiaccio sottile", significherebbe che potrebbero avvenire contatti regolari tra l'interno liquido e la superficie attraverso crepe, causando la formazione di zone di terreno caotico. Alla fine del 2008, venne suggerito che Giove potrebbe mantenere gli oceani di Europa caldi generando grandi onde di marea su Europa a causa della sua piccola (ma non nulla) obliquità. Questo tipo di marea precedentemente non considerata genera le cosiddette onde di Rossby, che pur viaggiando molto lentamente, alla velocità di pochi chilometri al giorno, sono in grado di generare una significativa quantità di energia cinetica. Per l'attuale stima dell'inclinazione assiale di Europa (0,1 gradi), la risonanza delle onde Rossby produrrebbe 7,3×1017 J di energia cinetica, che è duemila volte più grande di quella delle forze di marea dominanti. La dissipazione di questa energia potrebbe essere la principale fonte di calore dell'oceano di Europa. La sonda Galileo ha anche scoperto che Europa ha un debole momento magnetico, variabile e indotto dal grande campo magnetico di Giove, la cui intensità è di circa un sesto di quella del campo di Ganimede e sei volte quello di Callisto. L'esistenza del momento magnetico indotto richiede la presenza di materiale conduttore sotto la superficie, come ad esempio un grande oceano di acqua salata. Le prove spettrografiche suggeriscono che le strisce rosso scuro e le caratterizzazioni sulla superficie di Europa potrebbero essere ricche di sali come il solfato di magnesio, depositatosi tramite l'evaporazione dell'acqua che emerge da sotto. L'acido solforico idrato è un'altra possibile spiegazione dei contaminanti osservati spettroscopicamente. In entrambi i casi, siccome questi materiali sono privi di colore o bianchi quando puri, altri elementi devono essere presenti a loro volta per contribuire al colore rossastro. Si suggerisce la presenza di composti a base zolfo. Europa è considerato come uno dei mondi con la più alta probabilità che si sia sviluppata vita extraterrestre. È stato ipotizzato che la vita potrebbe esistere in questo oceano al di sotto del ghiaccio, in un ambiente simile a quello delle sorgenti idrotermali presenti sulla Terra nelle profondità dell'oceano o sul fondo del Lago Vostok, in Antartide. Allo stato attuale non ci sono prove che attestino la presenza di forme di vita su Europa, ma la presenza di acqua liquida è così probabile da rafforzare le richieste di inviare sonde per investigare. Fino al 1970 si pensava che la vita avesse bisogno dell'energia solare per potersi sviluppare, con le piante che sulla superficie catturano l'energia solare e, attraverso la fotosintesi, producono carboidrati dall'anidride carbonica e dall'acqua, rilasciando ossigeno nel processo, che vengono poi consumati dagli animali creando una catena alimentare. Anche nell'oceano profondo, molto al di sotto della portata della luce del sole, si pensava che il nutrimento venisse da detriti organici che scendono dalla superficie. L'accesso alla luce solare era quindi ritenuto fondamentale per poter sostenere la vita in un determinato ambiente. Tuttavia, nel 1977, durante un'immersione esplorativa alla isole Galápagos con il sommergibile DSV Alvin, gli scienziati scoprirono colonie di vermi tubo giganti, crostacei, molluschi bivalvi e altre creature raggruppate intorno a delle sorgenti idrotermali, da cui esce acqua riscaldata dall'attività tettonica terrestre.[100] Queste creature prosperano nonostante non abbiano accesso alla luce del sole e venne scoperto che erano parte di una catena alimentare del tutto indipendente. Invece delle piante, alla base di questa catena alimentare c'era una forma di batterio, la cui energia deriva dalla ossidazione di sostanze chimiche, come l'idrogeno o l'acido solfidrico, che ribolle dall'interno della Terra. Questa chemiosintesi batterica rivoluzionò lo studio della biologia, rivelando che la vita non dipendeva esclusivamente dall'irraggiamento solare: acqua ed energia erano sufficienti. Con questa scoperta si aprì una nuova strada in astrobiologia, e il numero di possibili habitat extraterrestri da prendere in considerazione aumentò sensibilmente. Anche se i vermi tubo e gli altri organismi multicellulari scoperti attorno alle sorgenti idrotermali respirano ossigeno e sono quindi indirettamente dipendenti dalla fotosintesi, i batteri anaerobici e gli archeobatteri che abitano questi ecosistemi potrebbero fornire un esempio di come potrebbe essersi sviluppata la vita nell'oceano di Europa. L'energia fornita dalle maree gravitazionali mantiene geologicamente attivo l'interno di Europa, proprio come succede, in modo ben più evidente, sulla vicina Io. Europa potrebbe possedere una fonte di energia interna da decadimento radioattivo come la Terra, ma l'energia generata dalle maree sarebbe enormemente maggiore rispetto a qualsiasi sorgente radioattiva. Tuttavia, l'energia mareale non potrebbe mai sostenere un ecosistema su Europa così ampio e diversificato come l'ecosistema terrestre basato sulla fotosintesi. La vita su Europa potrebbe esistere attorno a sorgenti idrotermali dell'oceano, o sotto il fondo dell'oceano stesso, come succede per alcuni endoliti terrestri. Oppure potrebbero esistere organismi aggrappati alla superficie inferiore dello strato di ghiaccio, come alghe e batteri che vivono nelle regioni polari della Terra, o ancora, alcuni microrganismi potrebbero fluttuare liberamente nell'oceano di Europa. Tuttavia, se gli oceani di Europa fossero troppo freddi, i processi biologici simili a quelli noti sulla Terra non potrebbero avvenire e, allo stesso modo, se l'oceano fosse troppo salato, potrebbero vivere in quell'ambiente solo alofili estremi. Nel novembre 2011, un team di ricercatori con un articolo sulla rivista Nature suggerì l'esistenza di vasti laghi di acqua liquida racchiusa nel guscio esterno ghiacciato di Europa e distinta dall'oceano liquido che si pensa esistere più in basso. In caso di conferma, i laghi potrebbero costituire altri habitat potenzialmente abitabili. Un articolo pubblicato nel marzo 2013 suggerisce che il perossido di idrogeno abbonda in gran parte della superficie di Europa. Gli autori affermano che se il perossido sulla superficie che si mescolasse all'oceano sottostante, sarebbe un'importante fonte energetica per eventuali forme di vita semplici e che il perossido di idrogeno è quindi un fattore importante per l'abitabilità dell'oceano di Europa, perché il perossido di idrogeno decade in ossigeno quando mescolato con acqua liquida. L'11 dicembre 2013, la NASA riferì di aver individuato dei fillosilicati, "minerali argillosi", spesso associati a materiali organici, sulla crosta ghiacciata di Europa. Gli scienziati suggeriscono che la presenza dei minerali è dovuta ad una collisione di un asteroide o di una cometa. Nella teoria della panspermia (più precisamente nella Lithopanspermia) viene suggerito che la vita terrestre potrebbe essere arrivata alle lune di Giove tramite la collisione di asteroidi o comete. 

Io

Io è un satellite naturale di Giove, il più interno dei quattro satelliti medicei, il quarto satellite del sistema solare per dimensione e quello più denso di tutti. Il suo nome deriva da quello di Io, una delle molte amanti di Zeus secondo la mitologia greca. Con oltre 300 vulcani attivi, Io è l'oggetto geologicamente più attivo del sistema solare. L'estrema attività geologica è il risultato del riscaldamento mareale dovuto all'attrito causato al suo interno da Giove e dagli altri satelliti galileani. Molti vulcani producono pennacchi di zolfo e biossido di zolfo che si elevano fino a 500 km sulla sua superficie. Questa è costellata di oltre 100 montagne che sono state sollevate dalla compressione della crosta di silicati, con alcuni di questi picchi che arrivano ad essere più alti dell'Everest. A differenza di molti satelliti del sistema solare esterno, che sono per lo più composti di ghiaccio d'acqua, Io è composto principalmente da rocce di silicati che circondano un nucleo di ferro o di solfuro di ferro fusi. La maggior parte della superficie di Io è composta da ampie piane ricoperte di zolfo e anidride solforosa congelata. Il vulcanismo su Io è responsabile di molte delle sue caratteristiche. Le colate laviche hanno prodotto grandi cambiamenti superficiali e dipinto la superficie in varie tonalità di colore giallo, rosso, bianco, nero, verde, in gran parte dovuti ai diversi allotropi e composti di zolfo. Numerose colate laviche di oltre 500 km di lunghezza, segnano la superficie di Io, e i materiali prodotti dal vulcanismo hanno costituito una sottile atmosfera a chiazze, ed hanno anche creato un toro di plasma attorno a Giove. Io ha svolto un ruolo significativo nello sviluppo dell'astronomia nel XVII e XVIII secolo: scoperto nel 1610 da Galileo Galilei, assieme agli altri satelliti galileiani, il suo studio favorì l'adozione del modello copernicano del sistema solare, allo sviluppo delle leggi di Keplero sul moto dei pianeti, e servì per una prima stima della velocità della luce. Dalla Terra, Io è rimasto solo un punto di luce fino alla fine del XIX secolo, quando divenne possibile risolvere le sue caratteristiche superficiali di dimensioni maggiori, come ad esempio le regioni polari rosso scure e le brillanti zone equatoriali. Nel 1979, le due sonde Voyager rivelarono l'attività geologica di Io, dotato di numerose formazioni vulcaniche, grandi montagne, e una superficie giovane priva di crateri da impatto. La sonda Galileo effettuò diversi passaggi ravvicinati tra gli anni novanta e l'inizio del XXI secolo, ottenendo dati sulla struttura interna e sulla composizione di Io, rivelando il rapporto tra Io e la magnetosfera di Giove e l'esistenza di una cintura di radiazioni centrata sull'orbita della luna. Io riceve circa 3600 rem (36 Sv) di radiazione al giorno. Ulteriori osservazioni furono eseguite dalla sonda Cassini-Huygens nel 2000 e dalla New Horizons nel 2007, e man mano che la tecnologia per l'osservazione progrediva, da telescopi terrestri e dal telescopio spaziale Hubble.

Glossario: le forze di marea

La forza di marea (in genere usato al plurale, forze di marea o forze mareali, e anche con l'espressione effetti di marea) è un effetto secondario della forza di gravità. Quando un oggetto molto grande subisce l'influenza gravitazionale di un altro, la forza gravitazionale può variare considerevolmente da una parte all'altra dell'oggetto. Questo tende a distorcerne la forma, senza cambiarne il volume (Geometricamente questo è dovuto al fatto che le forze mareali sono descritte dal tensore di Weyl, mentre il cambio di volume è legato al tensore di Ricci). Supponendo che l'oggetto fosse inizialmente una sfera, le forze di marea tenderanno a distorcerlo in un ellissoide, con l'asse maggiore allineato verso il corpo che produce la forza di gravità. Più in dettaglio, prendendo ad esempio il sistema Terra-Luna e trascurando la gravità terreste, le forze mareali si calcolano vettorialmente come la differenza tra l'accelerazione della Terra verso la Luna (che è descritta da un vettore costante che punta radialmente verso la Luna) e l'accelerazione di un punto sulla superficie della Terra verso la Luna (che invece è descritta da un vettore la cui intensità dipende dalla distanza dalla Luna e che punta sempre nella direzione di quest'ultima).

Barra delle equazioni per i lettori più curiosi

Le forze di marea seguono la legge dell'inverso del cubo. La forza di marea esatta in ogni punto è descritta dal tensore di Weyl. Nella maggior parte dei casi, considerando due corpi uno in orbita rispetto all'altro, è possibile usare un'approssimazione: differenziando la legge di Newton della gravità rispetto alla distanza si ha: 

dove M è la massa del corpo principale, m è la massa del corpo orbitante, e r è il raggio dell'orbita. Le forze di marea sperimentate saranno 2dF (verso l'esterno) sull'asse che unisce i centri di massa dei due corpi, e -dF (verso l'interno) sul piano perpendicolare a tale asse. Questa forza è quella responsabile del fenomeno della marea dei mari terrestri. In questo caso, l'intera massa d'acqua terrestre si "allunga" verso la luna, ma a causa della rotazione terrestre il punto più alto della marea è in ritardo di circa 20°.

La prima osservazione riportata di Io è stata fatta da Galileo Galilei il 7 gennaio 1610 con un telescopio rifrattore a 20 ingrandimenti presso l'Università di Padova. Tuttavia, in questa osservazione, Galileo potrebbe non essere riuscito a "separare" Io ed Europa a causa della bassa potenza del suo telescopio, così le due lune furono registrate come un singolo punto di luce. Io e Europa furono visti separatamente per la prima volta durante le osservazioni di Galileo del sistema di Giove il giorno seguente, l'8 gennaio 1610 (data di scoperta per Io della IAU). La scoperta di Io e degli altri satelliti di Giove da parte di Galileo furono pubblicati in Sidereus Nuncius, nel marzo 1610[6]. Nel suo Mundus Jovialis, pubblicato nel 1614, Simon Marius affermò di aver scoperto Io e le altre lune gioviane nel 1609, una settimana prima della scoperta di Galileo. Galileo dubitò di questa affermazione e respinse il lavoro di Marius accusandolo di plagio. In ogni caso, la prima osservazione di Marius avvenne il 29 dicembre 1609 del calendario giuliano, che equivale all'8 gennaio 1610 del calendario gregoriano, utilizzato da Galileo, che quindi scoprì certamente le lune gioviane prima di Marius. Il nome Io, assieme a diversi altri, fu suggerito da Simon Marius nel 1614 − qualche anno dopo la scoperta del satellite da parte di Galileo − nel trattato di astronomia "Mundus Iovialis anno MDCIX Detectus Ope Perspicilli Belgici", ma sia questo nome che quelli proposti per gli altri satelliti galileiani caddero ben presto in disuso e non furono più utilizzati fino alla metà del XX secolo. In gran parte della letteratura astronomica del periodo precedente Io era indicato con la designazione numerica (un sistema introdotto dallo stesso Galileo) di Giove I oppure, semplicemente, come «il primo satellite di Giove». Per i successivi due secoli e mezzo, Io rimase un irrisolto punto di luce di 5° grandezza nei telescopi dell'epoca. Nel corso del XVII secolo, Io e gli altri satelliti galileiani servirono per diversi scopi, come quello di determinare la longitudine, per convalidare la terza legge di Keplero sul moto planetario, e per la determinazione del tempo necessario per la luce nel viaggiare tra Giove e la Terra. Sulla base di effemeridi prodotte dall'astronomo Giovanni Cassini ed altri, Pierre-Simon Laplace creò una teoria matematica per spiegare le orbite in risonanza di Io, Europa e Ganimede. Successivamente questa risonanza fu indicata essere causa di effetti profondi sulle geologie delle tre lune. Il miglioramento della capacità risolutiva dei telescopi, tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo permise agli astronomi di risolvere le caratteristiche superficiali di maggiori dimensioni di Io. Nel 1890, Edward E. Barnard fu il primo ad osservare le variazioni di luminosità di Io nelle regioni equatoriali e polari, stabilendo che questo avveniva a causa delle differenze di colore e albedo tra le due regioni, e non a causa della forma di uovo di Io, come proposto a suo tempo dall'astronomo William Pickering, e che non erano due oggetti separati, come inizialmente aveva proposto Barnard. Osservazioni successive confermarono la differenza di colore delle regioni polari (rosso-marrone) rispetto a quelle equatoriali (giallo-bianche). Osservazioni telescopiche della metà del XX secolo, suggerirono la natura insolita di Io. Osservazioni spettroscopiche indicarono che la superficie di Io era priva di ghiaccio d'acqua (sostanza abbondante negli altri satelliti galileiani). Le stesse osservazioni suggerirono una superficie dominata da composti di sodio e zolfo evaporati. Osservazioni radiotelescopiche hanno rivelato l'influenza di Io sulla magnetosfera di Giove, come hanno dimostrato alcune esplosioni legate al periodo orbitale di Io. Le prime sonde a passare vicino a Io furono le gemelle Pioneer 10 e Pioneer 11 rispettivamente il 3 dicembre 1973 ed il 2 dicembre 1974. La tracciatura radio fornì una più accurata stima della massa di Io e delle sue dimensioni, suggerendo che esso abbia la più alta densità tra i quattro satelliti galileiani e che sia composto prevalentemente di rocce silicee e non di ghiaccio d'acqua. Le due sonde Pioneer rivelarono anche la presenza di una sottile atmosfera e di una intensa fascia di radiazioni attorno all'orbita di Io. Le fotocamere a bordo della Pioneer 11 riuscirono anche a scattare una buona immagine della regione del polo nord. La Pioneer 10 doveva scattare immagini ravvicinate durante il suo sorvolo, ma le fotografie andarono perdute a causa dell'intenso campo di radiazioni. Dotate di tecnologia più avanzata, le sonde Voyager 1 e Voyager 2 nel 1979 catturarono immagini più dettagliate delle Pioneer: la Voyager 1 rivelò pennacchi che salivano da una superficie relativamente giovane e caratterizzata da piane di colate laviche e montagne più alte dell'Everest, dimostrando che Io era geologicamente attivo. La Voyager 2, che passò 4 mesi dopo, confermò che tutti i vulcani osservati dalla Voyager 1 erano ancora attivi, tranne Pele e che durante l'intervallo di tempo tra il passaggio delle due sonde erano avvenuti diversi cambiamenti sulla superficie. La sonda Galileo, destinata allo studio del sistema gioviano, nonostante alcuni malfunzionamenti causati in parte dalle radiazioni provenienti da Giove riportò risultati significativi, scoprendo che Io ha, come i pianeti maggiori, un nucleo ferroso. Osservò nei suoi sorvoli ravvicinati diverse eruzioni vulcaniche e scoprì che il magma era composto di silicati ricchi di magnesio, comuni nella roccia magmatica femica e ultrafemica. La Cassini e la New Horizons hanno monitorato il vulcanismo di Io nei loro viaggi diretti rispettivamente verso Saturno e Plutone, La New Horizons catturò anche immagini nei pressi di Girru Patera nelle prime fasi di un'eruzione, e diverse altre eruzioni avvenute dai tempi della Galileo. Juno, arrivata nel 2016 nel sistema gioviano con l'obiettivo principale di studiare il campo magnetico di Giove, monitorerà anch'essa l'attività vulcanica di Io con lo spettrometro nel vicino infrarosso. Per il futuro l'ESA ha in progetto una missione verso Giove chiamata Jupiter Icy Moons Explorer che arriverebbe nel sistema gioviano nel 2030. Nonostante sia destinata allo studio delle altre 3 lune principali di Giove, potrà comunque monitorare l'attività vulcanica di Io. Un progetto a basso costo con destinazione Io è la proposta della NASA denominata Io Volcano Observer (IVO), una sonda che effettuerebbe diversi sorvoli ravvicinati di Io e che arriverebbe nel sistema gioviano nel 2026. Io è il più interno dei satelliti galileiani, posizionato tra Tebe e Europa ed è il quinto satellite che si incontra a partire dall'interno. Io orbita intorno a Giove ad una distanza di 421800 km dal centro del pianeta e a 350000 km dalla sommità delle sue nubi; impiega 42,456 ore per completare la sua orbita, il che implica che una buona parte del suo movimento può essere rilevata durante una singola notte di osservazioni. È in risonanza orbitale 2:1 con Europa e 4:1 con Ganimede. Questa risonanza contribuisce a stabilizzare l'eccentricità orbitale di 0,0041 che a sua volta costituisce la fonte principale di calore per la sua attività geologica. Senza questa eccentricità, l'orbita di Io sarebbe circolare, riducendo così la sua attività geologica in seguito alla stabilizzazione mareale. Come gli altri satelliti di Giove e la Luna terrestre, la rotazione di Io è in sincronia con il suo periodo orbitale e pertanto il satellite mostra sempre la stessa faccia a Giove. Questa sincronia è utilizzata anche nella definizione del sistema longitudinale del satellite. Il meridiano fondamentale di Io interseca i due poli nord e sud e l'equatore nel punto sub-gioviano; tuttavia non è ancora stata identificata nessuna caratteristica superficiale da assegnare come riferimento univoco per questo meridiano. Il lato rivolto verso il pianeta viene detto emisfero sub-gioviano, mentre il lato opposto viene chiamato emisfero anti-gioviano. Inoltre viene definito come emisfero anteriore il lato rivolto nella direzione del moto e emisfero posteriore quello volto nella direzione opposta. Io gioca un ruolo significativo nel modellare il campo magnetico gioviano, agendo come un generatore elettrico che può sviluppare una corrente elettrica di 3 milioni di ampere, rilasciando ioni che rendono il campo magnetico di Giove due volte più grande di quello che sarebbe senza la presenza di Io. La magnetosfera di Giove investe i gas e le polveri della sottile atmosfera di Io ad una velocità di 1 tonnellata al secondo. Questo materiale, proveniente dall'attività vulcanica di Io, è in gran parte composto da zolfo ionizzato e atomico, ossigeno e cloro. La materia, a seconda della sua composizione e ionizzazione, confluisce in diverse nubi neutre (non ionizzate) e in fasce di radiazione della magnetosfera di Giove e, in alcuni casi, vengono espulse dal sistema gioviano. Durante un incontro con Giove avvenuto nel 1992, la sonda Ulysses rivelò che un flusso di particelle delle dimensioni di 10 μm era stato espulso dal sistema gioviano, e che le particelle di polvere, che viaggiavano alla velocità di diversi chilometri al secondo, erano principalmente composte da cloruro di sodio. La sonda Galileo dimostrò che questi flussi di polvere provengono da Io, anche se non è chiaro come essa si formi. Il materiale che sfugge dall'attrazione gravitazionale di Io va a formare un toro di plasma che si divide sostanzialmente in tre parti: la parte esterna, più calda, si trova appena fuori dell'orbita di Io; più internamente si trova una estesa composta da materiali neutri e da plasma in raffreddamento, situata a circa la stessa distanza di Io da Giove, mentre la parte interna del toro è quella più "fredda", composta da particelle che stanno lentamente spiraleggiando verso Giove. L'interazione tra l'atmosfera di Io, il campo magnetico di Giove e le nubi delle regioni polari del gigante gassoso producono una corrente elettrica conosciuta come tubo di flusso di Io, che genera aurore sia nelle regioni polari di Giove che nell'atmosfera di Io. L'influenza di Io ha una forte ripercussione anche sulle emissioni radio provenienti da Giove e dirette verso la Terra: quando infatti Io è visibile dal nostro pianeta, i segnali radio aumentano considerevolmente. A differenza della maggior parte dei satelliti del sistema solare esterno, composti prevalentemente da un mix di ghiaccio d'acqua e silicati, Io sembra presentare una composizione analoga a quella dei pianeti terrestri, composti in prevalenza di rocce silicee fuse. Io ha una densità di 3,5275 g/cm³, più alta di qualsiasi luna del sistema solare e significativamente più elevata rispetto a quella degli altri satelliti galileiani e superiore alla densità della Luna. I modelli di Io basati sulle misurazioni delle Voyager e della Galileo suggeriscono che il suo interno è differenziato tra una crosta e un mantello ricchi di silicati un nucleo di ferro o di ferro e zolfo fusi. Il nucleo di Io costituisce circa il 20% della sua massa totale[38] e, a seconda della quantità di zolfo presente, il nucleo ha un raggio compreso tra 350 e 650 km se fosse composto quasi interamente da ferro, o tra 550 e 900 km per un nucleo costituito da una miscela di ferro e zolfo. Il magnetometro della Galileo non è riuscito a rilevare un campo magnetico interno, intrinseco ad Io, suggerendo che il nucleo non è convettivo. I modelli dell'interno di Io suggeriscono che il mantello è composto da almeno il 75% da forsterite, minerale ricco di magnesio, e abbia una composizione simile a quella delle meteoriti, in particolare a quelle delle condriti L e LL, con un contenuto di ferro più alto (rispetto al silicio) della Terra e della Luna, anche se inferiore a quello di Marte. Su Io è stato osservato un flusso di calore che suggerisce che il 10-20% del mantello potrebbe essere allo stato fuso. Una rianalisi dei dati del magnetometro della Galileo del 2009 rivelarono finalmente la presenza di un campo magnetico indotto di Io, che si spiegherebbe con la presenza di un oceano di magma dello spessore di 50 km sotto la superficie, che equivale a circa il 10% del mantello di Io, e la cui temperatura si aggira sui 1200 °C. Ulteriori analisi pubblicate nel 2011 confermarono la presenza di questo oceano di magma. La litosfera di Io, composta da basalto e zolfo depositati dall'esteso vulcanismo presente in superficie, è di almeno 12 km di spessore, e probabilmente non più di 40 km. A differenza di quanto avviene per la Terra e la Luna, la principale fonte di calore interno di Io non è causata dal decadimento degli isotopi ma dalle forze mareali di Giove e dalla risonanza orbitale con Europa e Ganimede. Tale riscaldamento dipende dalla distanza di Io da Giove, dalla sua eccentricità orbitale, dalla composizione del nucleo e dal suo stato fisico. La sua risonanza con Europa e Ganimede mantiene invariata nel tempo l'eccentricità di Io ed impedisce che la dissipazione mareale al suo interno circolarizzi l'orbita. La risonanza orbitale aiuta anche a mantenere immutata la distanza di Io da Giove; se essa non fosse presente Io inizierebbe lentamente a spiraleggiare verso l'esterno del pianeta madre. La quantità di energia prodotta dall'attrito mareale all'interno di Io è fino a 200 volte superiore a quella ottenuta unicamente dal decadimento radioattivo e scioglie una quantità significativa del mantello e del nucleo di Io.[1] Questo calore viene rilasciato sotto forma di attività vulcanica, generando l'alto flusso di calore osservato (da 0,6 a 1,6×1014 W su Io. Tutti i modelli relativi alla sua orbita suggeriscono che la quantità di riscaldamento mareale all'interno di Io cambia con il tempo, tuttavia, la quantità attuale di dissipazione mareale è in linea con il flusso di calore effettivamente osservato, inoltre tutti i modelli di riscaldamento mareale e di convezione non prevedono profili coerenti che comprendano simultaneamente la dissipazione mareale e la convezione del mantello per trasportare il calore in superficie. Sulla base dell'esperienza avuta dall'esplorazione delle antiche superfici della Luna, di Marte e di Mercurio, gli scienziati si aspettavano di trovare numerosi crateri da impatto sulla superficie di Io nelle prime immagini della Voyager 1. La densità dei crateri da impatto sulla superficie di Io avrebbe dato indizi sulla sua età. Tuttavia, gli astronomi furono sorpresi nel scoprire che la superficie era quasi del tutto priva di crateri da impatto, ma era invece costellata di pianure lisce e alte montagne, con caldere di varie forme e dimensioni, e colate laviche.[49] A differenza della maggior parte dei mondi osservati fino a quel momento, la superficie di Io era ricoperta di una grande varietà di materiali colorati (in particolare di varie tonalità dell'arancione) da vari composti solforosi. La mancanza di crateri da impatto ha indicato che la superficie di Io è geologicamente giovane, come la superficie terrestre; i materiali vulcanici coprono continuamente i crateri quando questi si producono. La conferma si ebbe con la scoperta di almeno nove vulcani attivi da parte della Voyager 1. La caratteristica più evidente ed importante della superficie di Io è la presenza di numerosissimi vulcani attivi: ne sono stati identificati dalle varie sonde oltre 150 e, sulla base di queste osservazioni, si può stimare che siano presenti fino a 400 vulcani. Il riscaldamento mareale prodotto dalla forzata eccentricità orbitale di Io lo ha portato a diventare uno dei mondi più vulcanicamente attivi nel sistema solare, con centinaia di bocche vulcaniche e vaste colate di lava. Nel corso di una grande eruzione, possono essere prodotte colate di lava di decine o addirittura centinaia di chilometri, costituite per lo più da lave basaltiche di tipo femico o ultrafemico ricche di magnesio. Sottoprodotti di questa attività sono zolfo, anidride solforosa e silicati piroclastici (come la cenere), che vengono soffiati fino a 200 km di altezza, producendo grandi pennacchi a forma di ombrello e colorando il terreno circostante di rosso, nero e bianco, creando l'atmosfera chiazzata di Io. Alcuni dei pennacchi vulcanici di Io sono stati visti estendersi per oltre 500 km al di sopra della superficie prima di ricadere, con il materiale espulso che può raggiungere la velocità di circa 1 km/s, creando anelli rossi di oltre 1000 km di diametro. La superficie di Io è costellata di depressioni di origine vulcanica note come paterae., che sono generalmente piane e delimitate da pareti scoscese. Queste caratteristiche le fanno assomigliare alle caldere terrestri, ma non è noto se si formino allo stesso modo, cioè per il crollo della camera di lava vuota. A differenza di caratteristiche simili sulla Terra e Marte, queste depressioni generalmente non si trovano nei picchi dei vulcani a scudo e sono normalmente più grandi, con un diametro medio di 41 km, con la più grande, Loki Patera, che ha un diametro di 202 km. Qualunque sia il meccanismo di formazione, la morfologia e la distribuzione di molti paterae suggeriscono che queste formazioni siano strutturalmente controllate, per lo più delimitate da faglie o montagne. Le paterae sono spesso sede di eruzioni vulcaniche, che si manifestano sia come colate laviche, che si diffondono nelle piane delle paterae, come nel caso di un'eruzione a Gish Bar Patera nel 2001, sia come laghi di lava. I laghi lava possono avere una crosta lavica in continuo rovesciamento, come nel caso di Pele, oppure esserlo solo episodicamente, come nel caso di Loki. L'analisi delle immagini della Voyager portò gli scienziati a credere che le colate laviche fossero composte principalmente di vari composti dello zolfo fuso. Tuttavia, studi successivi agli infrarossi e le misure della sonda Galileo indicano che queste erano composte da lava basaltica. Questa ipotesi si basa sulle misure della temperatura dei "punti caldi" di Io, che suggeriscono temperature di almeno 1300 K con punti fino a 1600 K. Le stime iniziali suggerirono temperature vicine ai 2000 K, ma erano sovrastimate perché erano errati i modelli termici usati. Oltre agli edifici vulcanici la superficie di Io ospita alte montagne la cui genesi non è ancora ben compresa, numerosi laghi di zolfo fuso, caldere vulcaniche profonde anche chilometri ed estese colate, lunghe anche centinaia di chilometri, di fluidi a bassa viscosità (forse qualche forma di zolfo o silicati fusi). Lo zolfo ed i suoi composti presentano una grande varietà di colori e sono responsabili della colorazione inusuale di Io. Alcune ipotesi sostengono che le montagne potrebbero essere degli enormi plutoni affiorati in superficie in seguito alle continue spinte tettoniche derivanti dalla fuoriuscita di lava dai principali centri vulcanici. La superficie di Io è costellata da oltre un centinaio di montagne che si sono sollevate a causa delle enormi compressioni che si verificano alla base della sua crosta di silicati. Alcuni di questi picchi sono più alti del Monte Everest terrestre. Su Io si contano tra 100 e 150 montagne con un'altezza media di circa 6 km, ma con un massimo di 17,5 km. Le montagne appaiono come grandi e isolate strutture, lunghe in media 157 km. Queste dimensioni richiedono una struttura basata su robuste rocce silicee e non a base di zolfo. Nonostante l'intenso vulcanismo che da ad Io il suo caratteristico aspetto le montagne sembrano di origine tettonica, originate dalle forze compressive alla base della sua litosfera che provocano l'innalzamento della sua crosta attraverso un processo di fagliazione inversa. Gli stress compressivi che portano alla formazione dei rilievi sono il risultato della subsidenza del materiale vulcanico che viene continuamente emesso. La distribuzione globale della presenza dei rilievi appare opposta a quella dei vulcani; le montagne dominano nelle aree a scarsa densità vulcanica e viceversa. Questo suggerisce che nella litosfera di Io vi siano grandi regioni dove dominano le forze compressive, che portano alla formazione di rilievi, o quelle estensive, che portano alla formazione di pateræ. Tuttavia in taluni punti i monti e le pateræ arrivano a toccarsi, suggerendo che il magma abbia sfruttato le fratture innescatesi durante la formazione dei rilievi per raggiungere la superficie. Le montagne di Io non hanno le caratteristiche tipiche dei vulcani e, sebbene molti siano ancora i dubbi sulla loro formazione, forniscono interessanti indicazioni sull'entità dello spessore crostale che le contiene. Per essere in grado di contenere le profonde radici di questi rilievi si è stimato uno spessore della crosta non inferiore a 30 km. I più importanti rilievi sono i Boösaule Montes (17,5 km d'altezza), gli Euboea Montes (13,4 km), lo Ionian Mons (12,7 km), gli Hi'iaka Montes (11,1 km) e gli Haemus Montes (10,8 km). Sembra che gli Euboea Montes si siano formati per l'innalzamento di un enorme plutone poi inclinatosi di circa 6 gradi. Questa inclinazione avrebbe poi favorito la formazione di frane sul loro versante settentrionale anche grazie alla continua erosione causata dalla sublimazione di biossido di zolfo durante le ore diurne. L'analisi dei dati spettroscopici e delle immagini inviate a Terra dalle sonde Voyager verso la fine degli anni settanta del XX secolo portò a concludere che le colate di lava sulla superficie di Io erano composte da vari derivati dello zolfo fuso. Osservazioni successive, condotte dalla Terra nella banda dell'infrarosso, hanno rivelato che esse sono troppo calde per essere costituite da zolfo liquido Un'ipotesi è che le lave di Io siano composte di rocce silicee fuse con composizione che può variare dal basalto alla komatiite. Recenti osservazioni condotte col Telescopio spaziale Hubble indicano che il materiale potrebbe essere ricco di sodio. Non è escluso che le diverse regioni di Io possano essere caratterizzate dalla presenza di differenti materiali. Il 12 maggio 2011 viene pubblicato uno studio di ricercatori dell'Università della California a Los Angeles, dell'Università della California a Santa Cruz e dell'Università del Michigan ad Ann Arbor, basato sui dati trasmessi dalla sonda Galileo, che dimostra la presenza di un "oceano" di magma fuso o parzialmente fuso. A differenza delle altre lune galileiane, Io non possiede praticamente acqua anche se non viene escluso che essa possa esistere in profondità ma non viene rilevata spettroscopicamente a causa della sua instabilità superficiale. Diverse possono essere le ipotesi sull'argomento. Una è probabilmente il calore eccessivo causato da Giove, che durante la formazione del satellite lo surriscaldò a tal punto da espellere tutti gli elementi volatili, acqua compresa, che nei primi milioni di anni di vita era probabilmente abbondante. Altre cause, non giudicate però particolarmente efficaci per la perdita d'acqua di Io, sono la fuga termica, la fotolisi e l'interazione tra particelle cariche, mentre esperimenti di laboratorio hanno dimostrato che piuttosto efficace per la perdita del ghiaccio d'acqua risulta essere la polverizzazione catodica. Anche gli impatti meteorici potrebbero aver contribuito alla vaporizzazione dell'acqua su Io. Io possiede una sottile atmosfera, composta principalmente da diossido di zolfo (SO2) con minori percentuali di monossido di zolfo (SO), cloruro sodico (NaCl), zolfo atomico e ossigeno. L'atmosfera è fortemente influenzata dalle radiazioni presenti nella magnetosfera di Giove, che la depredano costantemente dei suoi costituenti, e dagli episodi di vulcanismo sulla luna, che contribuiscono a ricostituirla. Presenta una struttura non uniforme, con una densità maggiore in corrispondenza dell'equatore, dove la superficie è più calda e dove sono collocati i principali coni vulcanici; qui si concentrano anche i principali fenomeni atmosferici. I più evidenti dalla Terra sono le aurore (che su Io sono quindi equatoriali e non polari). L'atmosfera mostra variazioni significative nella densità e nella temperatura in funzione dell'ora del giorno, della latitudine, dell'attività vulcanica e della brina superficiale. La pressione massima varia tra 3,3×10−5 e 3×10−4 Pa (pari rispettivamente a 0,3×103 nbar) osservate nell'emisfero opposto a Giove e lungo l'equatore, soprattutto nel primo pomeriggio quando la temperatura della superficie raggiunge il suo picco massimo. Nei pennacchi vulcanici sono stati osservati anche picchi localizzati con pressioni tra 5×10−4 e 40×10−4 Pa (da 5 a 40 nbar). La pressione raggiunge invece i valori minimi durante la notte, quando scende a punte comprese tra 0,1×10−7 e 1×10−7 Pa (tra 0,0001×100,001 nbar). La temperatura dell'atmosfera oscilla tra quella della superficie alle basse altitudini, dove il vapore del biossido di zolfo è in equilibrio con la sua brina superficiale, fino ai 1800 K alle grandi altitudini dove il sottile spessore atmosferico permette il riscaldamento generato dal toro di plasma e dall'effetto Joule del flusso magnetico. La bassa pressione limita gli effetti dell'atmosfera sulla superficie, eccetto per la ridistribuzione temporanea del biossido di zolfo da aree ricche di brina a zone povere e dell'espansione delle dimensioni degli anelli di deposito del materiale dei pennacchi quando esso rientra nella più densa atmosfera del lato illuminato. Un'atmosfera sottile implica anche che eventuali futuri moduli di atterraggio di sonde spaziali non necessiteranno di scudi termici di protezione e richiederanno invece retrorazzi per garantire un atterraggio morbido. D'altra parte questo stesso spessore sottile implicherà la necessità di una più efficace schermatura dalle radiazioni provenienti da Giove che sarebbero invece attenuate da un'atmosfera più spessa. Tuttavia per il futuro prossimo probabilmente non sarà possibile atterrare su Io, per problematiche varie legate alla sua vicinanza a Giove (delta-v, radiazioni), mentre è molto più verosimile una missione con sorvoli ravvicinati multipli da una sonda in orbita attorno a Giove. 

Ganimede

Ganimede è il maggiore dei satelliti naturali del pianeta Giove e il più grande dell'intero sistema solare; supera per dimensioni (ma non per massa) lo stesso Mercurio. Ganimede completa un'orbita attorno a Giove in poco più di sette giorni ed è in risonanza orbitale 1:2:4 con Europa ed Io rispettivamente. Composto principalmente da silicati e ghiaccio d'acqua, è totalmente differenziato con un nucleo di ferro fuso. Si ritiene che un oceano di acqua salata esista a circa 200 km di profondità dalla superficie, compreso tra due strati di ghiaccio. La superficie ganimediana presenta due principali tipi di terreno: le regioni scure, antiche e fortemente craterizzate, che si ritiene si siano formate 4 miliardi di anni fa e che coprono un terzo della luna e le zone più chiare, di formazione leggermente più recente, ricche di scoscendimenti e scarpate che coprono la restante parte. La causa delle striature visibili nelle zone chiare non è ancora totalmente compresa, sebbene esse siano probabilmente il risultato dell'attività tettonica attivata dal riscaldamento mareale. Ganimede è l'unico satellite del sistema solare per cui è nota l'esistenza di un campo magnetico proprio, probabilmente sostenuto dai movimenti convettivi all'interno del nucleo di ferro fuso. La ridotta magnetosfera ganimediana è immersa nella ben più grande magnetosfera gioviana, cui è collegata da linee di campo aperte. Il satellite presenta una tenue atmosfera di ossigeno, presente nella forma atomica (O), molecolare (O2) e forse come ozono (O3). L'idrogeno atomico è un costituente minore dell'atmosfera. Ancora non è noto con certezza se il satellite sia dotato anche di una ionosfera. Scoperto da Galileo Galilei nel 1610, deve il suo nome al personaggio di Ganimede, coppiere degli dei della mitologia greca amato da Zeus, l'equivalente greco di Giove. Diverse missioni spaziali hanno potuto studiare Ganimede da vicino durante l'esplorazione del sistema di Giove; tra queste la Pioneer 10 ne ha raccolto le prime immagini ravvicinate, le sonde Voyager hanno raffinato la stima delle sue dimensioni mentre la sonda Galileo ha scoperto, durante ripetuti sorvoli ravvicinati, l'esistenza del campo magnetico proprio ed ha suggerito quella dell'oceano sotto la superficie. In gran parte della prima letteratura astronomica ci si riferiva a Ganimede servendosi della designazione numerica romana come Giove III o come "terzo satellite di Giove". La missione Jupiter Icy Moons Explorer dell'ESA, con data di lancio prevista per il 2022, studierà le tre lune gioviane Europa, Callisto e Ganimede e sarà la prima sonda ad effettuare un'orbita intorno a quest'ultima. Fonti storiche riportano che Ganimede sarebbe stato visto ad occhio nudo dall'astronomo cinese Gan De, nel 364 a.C. Tra i quattro satelliti medicei, Ganimede è quello con la magnitudine apparente più bassa. Essi sarebbero in teoria visibili ad occhio nudo se non fossero nascosti dalla luminosità di Giove. Considerazioni recenti, mirate a valutare il potere risolutivo dell'occhio nudo, sembrerebbero tuttavia indicare che la combinazione della ridotta distanza angolare tra Giove ed ognuno dei suoi satelliti e della luminosità del pianeta, anche valutando le condizioni in cui questa sarebbe minima, renderebbero impossibile per un uomo riuscire ad individuare uno di essi. Basta comunque un piccolo cannocchiale o telescopio rifrattore per poter osservare con facilità Ganimede e gli altri satelliti medicei che appaiono come quattro piccoli punti luminosi, disposti lungo il prolungamento dell'equatore del pianeta. Ganimede orbita attorno a Giove piuttosto rapidamente ed è possibile seguirne la rotazione attorno al pianeta tra una notte e l'altra. Ogni 5,93 anni la Terra si trova per alcuni mesi in prossimità del piano su cui giacciono le orbite dei satelliti medicei. In questa occasione è possibile assistere a transiti ed eclissi tra i satelliti e Giove e anche tra i satelliti stessi. Queste occultazioni mutue sono state utilizzate per confrontare i satelliti in albedo. Questi fenomeni non sono rari, anzi ne possono capitare anche qualche centinaio durante una fase di periodico allineamento. In generale è complesso osservare l'eclissi di una luna per opera di un'altra luna perché l'ombra del corpo anteriore non è visibile sullo sfondo dello spazio finché il corpo posteriore non l'attraversa; di più semplice osservazione è il caso in cui l'eclissi avvenga mentre l'ombra del corpo anteriore ed il corpo celeste posteriore stanno transitando sul disco di Giove. Sebbene sia raro, è possibile che si verifichi l'eclissi di un satellite per opera di un altro, mentre le ombre di entrambi transitano sul disco di Giove. Durante questo evento, avvenuto ad esempio l'11 giugno 1991 tra Io e Ganimede, si osservano le due ombre raggiungersi ed unirsi, mentre il satellite più interno diventa scuro. Un'altra rara possibilità è che un satellite esterno sia occultato da un satellite più interno eclissato a sua volta da Giove. Se la coppia coinvolta nel fenomeno fosse composta da Ganimede e Callisto, l'eclissi di Callisto sarebbe totale. La scoperta di Ganimede è attribuita a Galileo Galilei che ne documentò per primo l'esistenza nel 1610 nel Sidereus Nuncius; il nome fu suggerito da Simon Marius, anche se cadde per un lungo tempo in disuso. Fino alla metà del XX secolo, nella letteratura astronomica ci si riferiva a Ganimede servendosi della designazione numerica romana, introdotta da Galileo, come Giove III o come "terzo satellite di Giove". In seguito alla scoperta dei satelliti di Saturno fu adottata la nomenclatura attuale. Si tratta dell'unico satellite mediceo ad essere intitolato ad una figura mitologica di sesso maschile. Storicamente la denominazione degli asteroidi è stata distinta da quella dei satelliti naturali. Infatti a ogni asteroide sin dalla fine del XIX secolo è assegnato un nome ed numero progressivo in cifre arabe e che segue l'ordine di scoperta; la denominazione di un satellite naturale adotta oltre al nome del satellite, il nome del pianeta attorno a cui orbita, seguito da un numero romano e la numerazione ricomincia per ogni pianeta. Inizialmente il numero romano avrebbe dovuto tener conto dell'ordine di distanza dell'orbita dal pianeta, con il numero I assegnato al satellite più vicino al pianeta, il II al successivo e così via, ma che ormai segue anch'esso l'ordine di scoperta. Quindi è stato permesso che nomi già assegnati ad alcuni satelliti naturali fossero riutilizzati anche per identificare degli asteroidi e viceversa. Ciò è avvenuto anche per l'asteroide 1036 Ganymed scoperto nel 1924 da Walter Baade che reca lo stesso nome della terza luna di Giove. L'annuncio della scoperta dei satelliti galileiani destò l'attenzione degli astronomi dell'epoca che si unirono a Galileo ed a Simon Marius nella loro osservazione. Mentre Martin Horký nella sua Brevissima Peregrinatio Contra Nuncium Sidereum sostenne che l'osservazione dei presunti satelliti galileiani fosse derivata dalla presenza di difetti nel telescopio, Keplero eseguì delle osservazioni in proprio e confermò la scoperta nel Narratio de observatis a se quatuor Iovis satellitibus erronibus, pubblicato nel 1611. Anche gli astronomi Thomas Harriot e Nicolas-Claude Fabri de Peiresc pubblicarono le proprie osservazioni dei satelliti galileiani, rispettivamente in Inghilterra e Francia. Per i due secoli successivi i principali studi si concentrarono sulla determinazione dell'orbita dei satelliti e sul calcolo delle loro effemeridi. All'inizio del 1611, ne furono determinati i periodi orbitali. Odierna (1656), Cassini (1668), Pound (1719) e Bradley (1718-1749) pubblicarono tavole di effemeridi e predissero le eclissi tra i satelliti ed il pianeta. Le prime teorie valide per spiegare il moto dei satelliti furono avanzate da Bailly e Lagrange (1766). Laplace (1788), infine, completò il lavoro producendo un modello teorico in grado di spiegare con completezza il moto dei satelliti galileiani. Una stima del diametro di Ganimede prossima al valore misurato dalla sonda Voyager 1 fu ottenuta alla fine dell'Ottocento. Lo sviluppo nei telescopi registrato nel XX secolo ha permesso l'individuazione di qualche dettaglio e del colore delle superfici; tuttavia soltanto l'era spaziale ha permesso di migliorare significativamente le conoscenze scientifiche su Ganimede e sugli altri satelliti galileiani ad opera di missioni esplorative in loco e di osservazioni condotte dalla Terra attraverso il Telescopio spaziale Hubble.  Diverse sonde lanciate per l'esplorazione di Giove hanno esplorato Ganimede in dettaglio. Le prime furono le Pioneer 10 e 11, nessuna delle quali però fornì molte informazioni sul satellite.[24] Le sonde successive furono le Voyager 1 e 2 nel 1979. Esse ne rivelarono le dimensioni, dimostrando che Ganimede è più grande di Titano, fino ad allora ritenuto il più grande satellite naturale del Sistema solare. Furono allora osservate anche le regioni di terreno con scarpate. Nel 1995 la sonda Galileo entrò in orbita attorno a Giove ed eseguì sei sorvoli ravvicinati di Ganimede tra il 1996 ed il 2000. Questi fly-by furono indicati come G1, G2, G7, G8, G28 e G29. Durante il sorvolo più ravvicinato, la Galileo passò a soli 264 km dalla superficie della luna. Durante il primo sorvolo nel 1996, denominato G1, fu scoperta l'esistenza del campo magnetico di Ganimede e l'annuncio della scoperta dell'oceano avvenne nel 2001. La Galileo trasmise a Terra un gran numero di immagini spettrali che permisero la scoperta di componenti non ghiacciati della superficie di Ganimede. La sonda che ha attraversato il sistema di Giove più recentemente è stata la New Horizons nel 2007, diretta verso Plutone. La New Horizons ha raccolto mappe topografiche e della composizione della luna. Proposta per il lancio nel 2020, la Europa Jupiter System Mission (EJSM) era una missione congiunta NASA/ESA per l'esplorazione delle lune di Giove. L'approvazione della missione era subordinata alla vittoria della gara di interesse con la Titan Saturn System Mission, diretta verso Titano ed Encelado: la scelta è avvenuta nel febbraio del 2009. L'EJSM consiste del Jupiter Europa Orbiter, di costruzione NASA, del Jupiter Ganymede Orbiter, di costruzione ESA ed eventualmente del Jupiter Magnetospheric Orbiter, di costruzione JAXA. A causa dei tagli del budget della NASA, nel 2011 l'ESA dichiarò che era improbabile una missione congiunta NASA/ESA con lancio previsto per il 2020, e continuò a sviluppare una propria missione rinominandola Jupiter Icy Moons Explorer (JUICE), il cui lancio è previsto per il 2022. Una precedente proposta di porre un orbiter attorno a Ganimede, che avrebbe permesso uno studio dettagliato della luna, era inclusa nella missione Jupiter Icy Moons Orbiter della NASA, successivamente cancellata. La propulsione per la navicella sarebbe dovuta esser fornita per mezzo della fissione nucleare. Tuttavia la missione fu cancellata nel 2005 a causa di tagli nel budget della NASA. Un'altra vecchia proposta era stata chiamata The Grandeur of Ganymede. Ganimede orbita attorno a Giove ad una distanza di 1070400 km, terzo tra i satelliti medicei. Completa una rivoluzione ogni sette giorni e tre ore. Come la maggior parte delle lune conosciute, Ganimede è in rotazione sincrona con Giove, con un emisfero del satellite costantemente rivolto verso il pianeta. L'orbita è caratterizzata da un bassissimo valore dell'eccentricità e dell'inclinazione rispetto al piano equatoriale di Giove; entrambi i valori cambiano quasi con periodicità a causa delle perturbazioni gravitazionali del Sole e degli altri pianeti con una tempistica di secoli. Gli intervalli di variazione sono di 0,0009-0,0022 e 0,05-0,32° rispettivamente. A queste variazioni nell'orbita corrispondono variazioni comprese tra gli 0 e gli 0,33° nell'inclinazione dell'asse di rotazione della luna rispetto all'asse ortogonale al piano orbitale. Ganimede è in risonanza orbitale con Io ed Europa: a ogni orbita di Ganimede, Europa ed Io completano rispettivamente due e quattro orbite. La congiunzione superiore tra Io ed Europa avviene sempre quando Io è al periasse dell'orbita ed Europa all'apoasse. La congiunzione superiore tra Europa e Ganimede avviene quando Europa è nelle vicinanze del periasse. Le longitudini delle congiunzioni di Io-Europa ed Europa-Ganimede cambiano con la stessa velocità, rendendo possibile che si verifichi una congiunzione triplice. Una così complicata forma di risonanza è detta risonanza di Laplace. La risonanza di Laplace attualmente esistente non è in grado di aumentare l'eccentricità dell'orbita di Ganimede. Il valore di circa 0,0013 è probabilmente ciò che rimane di un'epoca precedente in cui questi incrementi erano possibili. L'eccentricità orbitale di Ganimede è in qualche modo sconcertante: se non fosse esistito un meccanismo che l'avesse mantenuta o "alimentata", avrebbe dovuto essersi azzerata da tempo a causa della dissipazione mareale all'interno di Ganimede. Ciò significa che l'ultimo episodio di eccitazione dell'eccentricità è avvenuto soltanto diverse centinaia di milioni di anni fa. Poiché l'eccentricità orbitale di Ganimede è relativamente bassa (0,0015 in media) il riscaldamento mareale della luna oggi è trascurabile. Tuttavia nel passato Ganimede potrebbe aver attraversato più fasi di risonanza simile a quella di Laplace, che potrebbero aver aumentato l'eccentricità orbitale fino a valori di 0,01-0,02. Ciò deve aver determinato la generazione di un significativo quantitativo di calore mareale all'interno di Ganimede e la formazione del terreno striato potrebbe essere il risultato di uno o più di questi episodici riscaldamenti. L'origine della risonanza di Laplace tra Io, Europa e Ganimede è sconosciuta. Esistono due ipotesi al riguardo: che sia esistita dalla formazione del sistema solare oppure che si sia sviluppata in seguito. Una possibile sequenza degli eventi è la seguente: Io sollevava maree su Giove ed il processo causò un'espansione dell'orbita finché non fu raggiunta la risonanza 2:1 con Europa; dopo di ciò, l'espansione continuò, ma parte del momento angolare venne trasferito ad Europa mentre la risonanza determinava che anche l'orbita della seconda luna si espandesse; il processo continuò finché Europa instaurò una risonanza 2:1 con Ganimede. Infine, la velocità di spostamento delle congiunzioni tra le tre lune si sincronizzò e le bloccò nella risonanza rilevata da Laplace. La densità media di Ganimede, 1,936 g/cm³, suggerisce che acqua, prevalentemente in forma ghiacciata, e materiali rocciosi compongano la luna in egual misura.[6] Il valore del rapporto tra la massa dei ghiacci e la massa totale di Ganimede (frazione di massa) è compreso tra 46-50%, leggermente inferiore a quello stimato per Callisto. Potrebbero essere presenti altri ghiacci di sostanze volatili come l'ammoniaca. La composizione esatta delle rocce di Ganimede non è nota, ma è probabilmente simile alla composizione della condriti ordinarie di tipo L o LL, caratterizzate da un quantitativo complessivo di ferro inferiore rispetto alle condriti H (tra l'altro con meno ferro metallico e più ossido di ferro). Il rapporto di peso tra ferro e silicio è di 1,05:1,27 per Ganimede, mentre è di 1,8 per il Sole. La superficie di Ganimede ha un'albedo del 43%. Il ghiaccio d'acqua sembra essere onnipresente sulla superficie, con una frazione di massa del 50-90%,[6] significativamente superiore al dato ottenuto considerando Ganimede nella sua totalità. Analisi spettroscopiche nel vicino infrarosso hanno rivelato la presenza di forti bande di assorbimento del ghiaccio d'acqua, a lunghezze d'onda di 1,04, 1,25, 1,5, 2,0 e 3,0 μm. Il terreno scanalato è più luminoso e si compone di un quantitativo di ghiaccio superiore rispetto ai terreni più scuri. L'analisi di spettri ad alta risoluzione nel vicino infrarosso e nell'ultravioletto ottenuti dalla sonda Galileo e dalla Terra ha rivelato anche altri materiali: anidride carbonica (CO2), anidride solforosa (SO2) e probabilmente il cianogeno ((CN)2), l'idrogeno solfato (HSO4-) e vari composti organici. I dati raccolti dalla Galileo hanno rivelato inoltre la presenza di solfato di magnesio (MgSO4) e, probabilmente, solfato di sodio (Na2SO4) sulla superficie di Ganimede. Questi sali potrebbero essersi originati nell'oceano al di sotto della superficie. La superficie di Ganimede è asimmetrica; l'emisfero "anteriore", che guarda verso la direzione di avanzamento della luna sulla sua orbita, è più luminoso rispetto a quello posteriore. Lo stesso accade su Europa, mentre su Callisto accade la situazione opposta. L'emisfero anteriore di Ganimede sembra essere il più ricco di diossido di zolfo, mentre la distribuzione dell'anidride carbonica non sembra rivelare alcuna asimmetria tra gli emisferi, sebbene non siano state osservate le regioni in prossimità dei poli. I crateri da impatto su Ganimede, eccetto uno, non presentano arricchimento di anidride carbonica, cose che nuovamente distingue Ganimede da Callisto. I livelli di anidride carbonica di Ganimede furono probabilmente esauriti nel passato. Ganimede si compone principalmente di silicati e ghiaccio d'acqua; presenta una crosta ghiacciata che scivola su di un mantello di ghiaccio più tiepido, e che ospita uno strato di acqua liquida. Le indicazioni provenienti dalla sonda Galileo sembrano suffragare una differenziazione di Ganimede in tre strati concentrici: un piccolo nucleo di ferro-solfuro di ferro, un mantello roccioso ricco di silicati ed una crosta ghiacciata. Il modello è supportato da un basso valore del momento di inerzia adimensionale, pari a 0,3105 ± 0,0028, misurato durante i fly-by della sonda Galileo. Per una sfera omogenea esso vale 0,4, ma il suo valore diminuisce se la densità aumenta con la profondità. Ganimede ha il momento d'inerzia adimensionale più basso tra i corpi solidi del Sistema solare. L'esistenza di un nucleo liquido e ricco in ferro fornirebbe inoltre una spiegazione piuttosto semplice dell'esistenza del campo magnetico proprio della luna, misurato dalla sonda Galileo. I moti convettivi nel ferro liquido, che presenta una conduttività elettrica elevata, è il modello più ragionevole per la generazione di un campo magnetico planetario. La presenza di un nucleo metallico suggerisce inoltre che in passato Ganimede possa essere stato esposto a temperature più elevate delle attuali. Gli spessori indicati per gli strati all'interno di Ganimede dipendono dalla presunta composizione dei silicati (olivine e pirosseni) nel mantello e dei solfuri nel nucleo. I valori più probabili sono di 700-900 km per il raggio del nucleo e 800-1000 km per lo spessore del mantello ghiacciato esterno, con la parte rimanente occupata dal mantello di silicati. La densità del nucleo è di 5,5-6 g/cm³ e quella del mantello di silicati è di 3,4-3,6 g/cm³. Alcuni modelli per la generazione di un campo magnetico planetario richiedono l'esistenza di un nucleo solido di ferro puro all'interno del nucleo liquido di Fe-FeS - similmente alla struttura del nucleo terrestre. Il raggio di questo nucleo solido potrebbe raggiungere un valore massimo di 500 km. Il nucleo di Ganimede è caratterizzato da una temperatura di circa 1500-1700 K e da una pressione di 100 kbar (equivalente ad 1 GPa). La superficie di Ganimede presenta due tipi di terreno assai differenti; regioni scure, antiche e fortemente craterizzate si contrappongono a zone più chiare, di formazione più recente, ricche di scoscendimenti e scarpate. La loro origine è chiaramente di natura tettonica, ed è probabilmente da attribuirsi ai movimenti di rilassamento e di riposizionamento della crosta ghiacciata del satellite. Sono visibili anche formazioni geologiche che testimoniano la presenza di flussi lavici in passato; sembrerebbe invece che il criovulcanismo abbia svolto soltanto un ruolo marginale.[6] Grazie ad analisi spettroscopiche delle regioni più scure sono state individuate tracce di materiali organici che potrebbero indicare la composizione degli impattatori che parteciparono al processo di accrezione dei satelliti di Giove. Le regioni più giovani della superficie ganimediana sono relativamente simili a quelle di Encelado, Ariel e Miranda; le regioni più antiche, che coprono circa un terzo della superficie, ricordano la superficie di Callisto. Il motore degli sconvolgimenti tettonici potrebbe essere connesso con gli episodi di riscaldamento mareale avvenuti nel passato della luna, probabilmente rafforzatisi quando il satellite attraversava fasi di risonanza orbitale instabile. La deformazione mareale del ghiaccio potrebbe aver riscaldato l'interno della luna e teso la litosfera, conducendo alla formazione di fratture e di sistemi di horst e graben, che erosero il terreno più antico e più scuro sul 70% della superficie. La formazione del terreno più chiaro e striato potrebbe essere anche connessa con quella del nucleo, durante la cui evoluzione pennacchi di acqua calda proveniente dalle profondità della luna potrebbero essere risaliti alla superficie, determinando la deformazione tettonica della litosfera. Il riscaldamento derivante dal decadimento di elementi radioattivi all'interno del satellite è la principale fonte di calore interno attualmente esistente. Dal flusso di calore da esso generato dipende, ad esempio, lo spessore dell'oceano al di sotto della superficie. Modelli recenti sembrerebbero indicare che il flusso di calore prodotto dal riscaldamento mareale potrebbe aver raggiunto un ordine di grandezza maggiore rispetto al flusso attuale se l'eccentricità fosse stata anch'essa di un ordine di grandezza maggiore dell'attuale, come potrebbe essere stato nel passato. Entrambi i tipi di terreno sono fortemente craterizzati, con il terreno più scuro che sembra essere saturato da crateri e la cui evoluzione è avvenuta grandemente per mezzo di eventi di impatto. Il terreno più chiaro e striato presenta un numero nettamente inferiore di caratteristiche da impatto, che hanno avuto un ruolo di minore importanza nell'evoluzione tettonica del terreno. La densità dei crateri suggerisce che il terreno scuro risalga a 3,5-4 miliardi di anni fa, un'età simile a quella degli altopiani lunari, mentre il terreno chiaro sarebbe più recente, ma non è chiaro di quanto. Ganimede potrebbe aver sperimentato un periodo di intenso bombardamento meteorico da 3,5 a 4 miliardi di anni fa, simile a quello sperimentato dalla Luna. Se fosse vero, la grande maggioranza degli impatti sarebbe avvenuta in quell'epoca ed il tasso di craterizzazione da allora si sarebbe fortemente ridotto. Alcuni crateri si sovrappongono alle fenditure nel terreno, mentre altri ne sono divisi; questo indica un'origine simultanea dei diversi tipi di formazione geologica. I crateri più recenti presentano anche le caratteristiche strutture a raggiera; a differenza dei crateri lunari, tuttavia essi sono relativamente più piatti e meno pronunciati e sono privi dei rilievi circostanti e della depressione centrale, probabilmente per via dell'assenza di roccia dalla superficie del satellite. La superficie ganimediana è inoltre ricca di palinsesti, antichi crateri livellati dall'attività geologica successiva, che hanno lasciato traccia dell'antica parete solamente sotto forma di una variazione di albedo. La formazione principale della superficie di Ganimede è una pianura scura nota come Galileo Regio, in cui sono distinguibili una serie di fenditure concentriche, o solchi, probabilmente originatisi durante un periodo di attività geologica. Un'altra importante caratteristica di Ganimede sono le calotte polari, probabilmente composte di brina di acqua. La brina raggiunge i 40° di latitudine. Le calotte polari furono osservate la prima volta dalle sonde Voyager. Sono state sviluppare due teorie sulla loro formazione: esse potrebbero derivare dalla migrazione di acqua a latitudini maggiori oppure dal bombardamento da plasma del ghiaccio superficiale. I dati raccolti durante la missione Galileo suggeriscono che la seconda ipotesi è quella corretta. Nel 1972 un gruppo di astronomi indiani, britannici e statunitensi che lavoravano presso l'Osservatorio Bosscha in Indonesia annunciarono la scoperta di una sottile atmosfera attorno al satellite durante l'occultazione di una stella da parte di Giove e dello stesso Ganimede. Essi ipotizzarono una pressione superficiale di 1 μBar circa (0,1 Pa). Tuttavia nel 1979 la sonda Voyager 1 osservò l'occultazione della stella κ Centauri durante il suo sorvolo del pianeta, compiendo analisi che portarono a risultati differenti da quelli trovati nel 1972. Le misurazioni furono condotte nello ultravioletto lontano, ad una lunghezza d'onda inferiore ai 200 nm, e, sebbene molto più sensibili alla presenza dei gas rispetto alle osservazioni nel visibile fatte nel 1972, la sonda non rilevò alcuna atmosfera. Il limite superiore della densità numerica fu stimato essere di 1,5×109 cm−3, corrispondente ad una pressione superficiale di circa 2,5×10-5 μBar, cioè un valore di cinque ordini di grandezza inferiore a quanto troppo ottimisticamente era stato indicato nel 1972. Al contrario dei dati della Voyager, una tenue atmosfera di ossigeno, similmente a quanto trovato anche per Europa, venne rilevata su Ganimede dal Telescopio spaziale Hubble nel 1995. Il telescopio spaziale rilevò la presenza di ossigeno atomico da osservazioni nel lontano ultravioletto, alle lunghezze d'onda di 130,4 nm e 135,6 nm, che individuarono il manifestarsi di luminescenze notturne. Questo tipo di emissioni si verificano quando l'ossigeno molecolare viene dissociato in atomi dall'impatto con elettroni rivelando così la presenza di un'atmosfera sostanzialmente neutra composta principalmente di molecole di O2. Il valore della densità numerica alla superficie è probabilmente compreso tra 1,2-7×108 cm-3, corrispondente alla pressione superficiale di 0,2-1,2×10-5 μBar. Questi valori sono in accordo con il limite superiore ricavato dai dati raccolti dalla Voyager e calcolato nel 1981. L'ossigeno non è però una prova dell'esistenza di vita su Ganimede; infatti si pensa che esso sia prodotto per effetto delle radiazioni incidenti sulla superficie che determinano la scissione di molecole di ghiaccio d'acqua in idrogeno e ossigeno. Mentre l'idrogeno viene rapidamente disperso a causa del suo basso peso atomico, l'ossigeno così liberato va a costituire l'atmosfera del satellite.[69] Le emissioni luminose (airglow) osservate su Ganimede non sono spazialmente omogenee come lo sono quelle su Europa. Il Telescopio spaziale Hubble ha osservato due chiazze luminose localizzate nell'emisfero sud e nell'emisfero nord, vicino ai ± 50° di latitudine, corrispondenti al confine tra le linee di campo aperte e chiuse del campo magnetico di Ganimede. Le emissioni luminose potrebbero essere aurore polari, causate dalla precipitazione del plasma lungo le linee di campo aperte. L'esistenza di un'atmosfera neutra implica quella di una ionosfera, poiché le molecole di ossigeno vengono ionizzate dall'impatto con gli elettroni altamente energetici provenienti dalla magnetosfera e dalle radiazioni solari nell'estremo ultravioletto.[9] Tuttavia la natura della ionosfera di Ganimede è ancora controversa, come lo è del resto la natura dell'atmosfera. Alcune misurazioni della sonda Galileo accertarono un valore elevato della densità di elettroni vicino al satellite, suggerendo così la presenza di una ionosfera, mentre altre misurazioni non riuscirono a rilevare niente. La densità di elettroni vicino alla superficie potrebbe essere dell'ordine di circa 400-2500 cm−3. Al 2008 non sono stati ancora trovati limiti precisi dei parametri che caratterizzano la ionosfera ganimediana. Ulteriori evidenze di una atmosfera di ossigeno derivano dal rilevamento spettroscopico di gas intrappolato tra i ghiacci d'acqua di Ganimede. La scoperta di ozono (O3) nell'atmosfera venne annunciata nel 1996. Nel 1997 venne rivelata, tramite l'analisi delle righe di assorbimento spettroscopico, la presenza di una fase densa di ossigeno molecolare, compatibile con del gas intrappolato nel ghiaccio d'acqua. L'intensità delle righe di assorbimento rilevate dipende più dalla latitudine e dalla longitudine che dall'albedo della superficie; le righe tendono a diminuire all'aumentare della latitudine, mentre l'ozono mostra un comportamento opposto. Esperimenti di laboratorio hanno trovato che, alla temperatura relativamente calda di 100 K della superficie di Ganimede, l'ossigeno molecolare tende a dissolversi nel ghiaccio invece di raggrupparsi in bolle. La ricerca del sodio nell'atmosfera, subito dopo il ritrovamento dello stesso su Europa, non portò ad alcun risultato nel 1997; pertanto il sodio è almeno 13 volte meno abbondante su Ganimede che su Europa. La causa è legata o alla relativa scarsezza sulla superficie o al fatto che la magnetosfera scherma le particelle più energetiche. Un altro costituente minore dell'atmosfera di Ganimede è l'idrogeno atomico. Gli atomi di idrogeno vennero scoperti a 3000 km dalla superficie. La loro densità sulla superficie è di circa 1,5×104 cm−3. La sonda Galileo ha eseguito sei sorvoli ravvicinati di Ganimede tra il 1995 ed il 2000 (indicati come G1, G2, G7, G8, G28 e G29) e ha scoperto che la luna ha un campo magnetico proprio all'interno della ben più vasta magnetosfera di Giove, ma indipendente da questa. Il valore del momento magnetico è di circa 1,3×1013 T·m3, un valore tre volte superiore a quello del pianeta Mercurio. L'asse del dipolo magnetico è inclinato rispetto all'asse di rotazione di Ganimede di 176°, opponendosi quindi al campo magnetico di Giove; quindi è possibile che si verifichino episodi di riconnessione magnetica. Il polo nord magnetico si trova al di sotto del piano orbitale. Il campo magnetico di Ganimede raggiunge un'intensità di 719 ± 2 nT all'equatore della luna, mentre il campo magnetico di Giove ha un'intensità di circa 120 nT in corrispondenza dell'orbita di Ganimede. In corrispondenza dei poli il campo magnetico di Ganimede raggiunge un'intensità doppia di quella misurata all'equatore - 1440 nT. Il campo magnetico permanente scava una nicchia attorno a Ganimede, creando una piccola magnetosfera inclusa in quella di Giove. Nel Sistema solare questa caratteristica non si ripete per nessun'altra luna. Il diametro della magnetosfera di Ganimede è pari a 4-5 RG (RG = 2.631,2 km). La magnetosfera presenta una regione di linee di campo chiuse compresa entro i 30° di latitudine, dove sono intrappolate particelle cariche (elettroni e ioni), creando una sorta di fasce di van Allen. La specie chimica più presente nella magnetosfera è ossigeno atomico ionizzato (O+) che si adatta bene alla tenue atmosfera di ossigeno della luna. Nelle regioni polari, per latitudini superiori a 30°, le linee del campo magnetico sono aperte e connettono Ganimede con la ionosfera di Giove. In queste regioni, sono state rilevate particelle cariche altamente energetiche (decine e centinaia di keV), che potrebbero essere le responsabili delle aurore osservate attorno ai poli di Ganimede. Inoltre, ioni pesanti precipitano continuamente sulle superfici polari della luna, determinando lo sputtering e lo scurimento del ghiaccio. L'interazione tra la magnetosfera di Ganimede ed il plasma appartenente a quella gioviana è per molti aspetti simile all'interazione tra la magnetosfera terrestre ed il vento solare.[80][81] Il plasma co-rotante con Giove impatta sulla parte della magnetosfera di Ganimede opposta rispetto alla direzione di avanzamento della luna sulla sua orbita, così come il vento solare impatta sulla magnetosfera terrestre. La principale differenza è nella velocità del flusso di plasma - supersonico nel caso della Terra e subsonico nel caso di Ganimede. A causa di ciò, non si forma alcuna onda d'urto davanti all'emisfero "posteriore" di Ganimede. In aggiunta al campo magnetico proprio, Ganimede presenta un campo magnetico indotto. La sua esistenza è connessa con la variazione del campo magnetico gioviano in prossimità della luna. Il momento indotto è diretto radialmente da o verso Giove e segue la direzione della variazione nel campo magnetico planetario. Il campo magnetico indotto ha un'intensità di un ordine di grandezza inferiore rispetto a quello proprio; all'equatore l'intensità del campo è di circa 60 nT, circa la metà dell'intensità assunta dal campo magnetico di Giove nella stessa zona. Il fatto che il campo magnetico indotto di Ganimede sia confrontabile con quelli di Callisto ed Europa indica che anche questa luna ha un oceano al di sotto della superficie con elevata conduttività elettrica. Poiché Ganimede è totalmente differenziato ed ha un nucleo metallico, alcune teorie prevedono che il campo magnetico intrinseco sia generato in modo simile a quanto accade sulla Terra: dalla rotazione di materiale conduttore presente nel suo interno, nel quale si siano instaurati flussi di corrente elettrica. A dispetto della presenza del nucleo ferroso però, il campo magnetico di Ganimede rimane enigmatico, particolarmente perché altri corpi simili a Ganimede ne sono sprovvisti. Altre ricerche suggeriscono che il nucleo, relativamente piccolo nelle dimensioni, possa ormai essersi raffreddato al punto da non essere più in grado di sostenere il campo magnetico. In alternativa allora questo potrebbe derivare da uno strato di acqua liquida ricca di sale situato ad una profondità di circa 150 km. Altri studiosi invece ritengono che il nucleo possa essere ancora caldo, avendo ricevuto energia da episodi di risonanza orbitale e grazie ad un mantello composto da materiale particolarmente isolante. Infine, un'ultima alternativa è che il campo sia generato da silicati magnetizzati presenti nel mantello, rimanenze di un passato in cui Ganimede possedeva un campo magnetico molto più potente generato dal nucleo ancora fluido. Ganimede si è formato probabilmente per accrezione nella sub-nebulosa di Giove, un disco di gas e polveri che circondava il pianeta dopo la sua formazione. Il processo ha richiesto circa 10 000 anni,[83] un lasso di tempo molto inferiore ai 100 000 anni stimati per l'accrezione di Callisto (causato probabilmente da un relativamente ridotto quantitativo di gas nella sub-nebulosa di Giove al momento della formazione dei satelliti galileiani). Essendo Ganimede più interno di Callisto, la sua formazione ha richiesto comunque tempi inferiori perché avvenuta in una regione della nube più vicina a Giove e quindi più densa. Un processo di formazione relativamente veloce ha impedito che il calore di accrezione fosse disperso nello spazio, favorendo il processo di differenziazione, che ha condotto alla separazione del ghiaccio dalle rocce e ad un'organizzazione interna secondo strati sovrapposti di composizione chimica differente. In ciò, Ganimede è molto differente da Callisto, che ha perso molto calore durante la lenta fase di accrezione ed oggi appare congelato in una forma precoce di differenziazione, con il processo completato solo parzialmente. Questa ipotesi spiega il perché le due lune appaiano così differenti a dispetto di masse e composizioni assai simili. Subito dopo la formazione di Ganimede il nucleo roccioso, che durante l'accrezione e la differenziazione aveva accumulato una grande quantità di calore, iniziò lentamente a trasmetterlo al mantello ghiacciato. Quest'ultimo, a sua volta, lo trasferiva alla superficie per convezione. Inoltre il decadimento degli elementi radioattivi nelle rocce riscaldò ulteriormente il nucleo roccioso, determinandone un'ulteriore differenziazione in un nucleo di ferro-solfuro e ferro ed un mantello di silicati. A questo punto Ganimede aveva terminato il processo di differenziazione. Per paragone, si ritiene che il calore proveniente dal decadimento radioattivo in Callisto abbia instaurato moti convettivi nell'interno ghiacciato della luna, moti che la raffreddarono ed impedirono la fusione su grande scala del ghiaccio ed una rapida differenziazione. I moti convettivi su Callisto hanno condotto solo ad una parziale separazione delle rocce dal ghiaccio. Ganimede oggi continua a raffreddarsi lentamente con il calore rilasciato dal nucleo e dal mantello di silicati che permette la sussistenza dell'oceano al di sotto della superficie, mentre il lento raffreddamento del nucleo liquido di Fe - FeS determina i moti convettivi che supportano il campo magnetico. Il flusso di calore attualmente proveniente da Ganimede è probabilmente maggiore rispetto a quello di Callisto.

Callisto

Callisto è uno dei quattro principali satelliti naturali del pianeta Giove, la terza più grande luna del sistema solare, la seconda più grande del sistema gioviano, dopo Ganimede, e il più grande oggetto del sistema solare a non essere completamente differenziato. Scoperto da Galileo Galilei nel 1610, Callisto ha un diametro di 4821 km, equivalente al 99% del diametro del pianeta Mercurio ma solo circa un terzo della sua massa. È la quarta luna galileiana in ordine di distanza da Giove, trovandosi a circa 1880000 km dal pianeta. Callisto non partecipa alla risonanza orbitale che coinvolge gli altri 3 satelliti galileiani: Io, Europa e Ganimede, quindi non subisce i riscaldamenti mareali, che originano i fenomeni endogeni presenti su Io ed Europa. Privo di campo magnetico interno e appena al di fuori della fascia di radiazioni del gigante gassoso, non interagisce particolarmente con la magnetosfera di Giove. Callisto è composto, più o meno in egual misura, da rocce e ghiacci, con una densità media di circa 1,83 g/cm³, la più bassa tra i satelliti medicei. Sulla sua superficie è stata rilevata spettroscopicamente la presenza del ghiaccio d'acqua, del biossido di carbonio, di silicati e composti organici. Studi condotti dalla sonda Galileo hanno rivelato che Callisto potrebbe avere un piccolo nucleo di silicati e forse uno strato di acqua liquida al di sotto della superficie, a profondità superiori a 100 km. La superficie di Callisto è la più antica e la più pesantemente craterizzata del sistema solare. Non risultano tracce di processi del sottosuolo, come tettonica a placche o vulcanismo; non c'è alcun segno che un'attività geologica si sia mai verificata in passato e l'evoluzione della sua superficie si è prodotta principalmente per gli impatti meteoritici. Le principali caratteristiche superficiali includono strutture con multipli anelli concentrici, con scarpate, creste e depositi ad essi associati, crateri da impatto di varie forme e catene di crateri. Le età delle diverse morfologie non sono note. Callisto è circondato da una sottile atmosfera composta di biossido di carbonio e ossigeno molecolare, nonché da una ionosfera piuttosto intensa. Si pensa che Callisto si sia formato nel processo di accrescimento che ha interessato il disco di gas e polveri che circondava Giove dopo la sua formazione. La lentezza del processo di accumulo di materia e la mancanza del riscaldamento mareale ha evitato la differenziazione chimica, mentre una lenta convezione all'interno di Callisto ha portato a una differenziazione solo parziale e alla possibile formazione di un oceano nel sottosuolo ad una profondità di 100-150 km, con un piccolo nucleo roccioso interno. La probabile presenza di un oceano nel sottosuolo di Callisto lascia aperta la possibilità che possa ospitare la vita. Tuttavia, le condizioni sembrano essere meno favorevoli rispetto alla vicina Europa. Diverse sonde spaziali, le Pioneer 10 e 11, la Galileo e la Cassini hanno studiato Callisto, che, a causa dei suoi bassi livelli di radiazione, è stato a lungo considerato il luogo più adatto per una base umana in una futura esplorazione del sistema gioviano. La scoperta di Callisto è attribuita a Galileo Galilei, che nel 1610 ne documentò l'esistenza assieme alle altre tre lune principali di Giove nel Sidereus Nuncius. Prende il nome da una delle tante amanti di Zeus nella mitologia greca, dove Callisto era una ninfa (o secondo altre fonti, figlia di Licaone) associata alla dea della caccia Artemide. Il nome fu proposto dall'astronomo Simon Marius su suggerimento di Johannes Kepler. Tuttavia, i nomi dei satelliti galileiani caddero in disuso per molto tempo, fino alla metà del XX secolo e nella relativamente recente letteratura astronomica veniva usata la designazione numerica romana introdotta da Galileo, e Callisto veniva chiamato Giove IV, o quarto satellite di Giove. Le sonde Pioneer 10 e Pioneer 11 inviate verso Giove nei primi anni settanta non diedero molte nuove informazioni su Callisto rispetto a quello che era già noto da osservazioni terrestri. La vera svolta avvenne più tardi con i sorvoli ravvicinati delle sonde Voyager 1 e Voyager 2 negli anni 1979-1980. Esse ripresero più della metà della superficie di Callisto, con una risoluzione di 1-2 km, misurando temperatura, massa e forma della luna gioviana. Una seconda tornata esplorativa avvenne dal 1994 al 2003, quando la sonda Galileo effettuò otto sorvoli ravvicinati di Callisto, il più vicino dei quali a 138 km dalla superficie. La sonda Galileo completò la mappa globale della superficie, con una serie di immagini con risoluzione fino a 15 metri di alcune aree selezionate. Nel 2000, la sonda Cassini in viaggio verso Saturno acquisì immagini di alta qualità nell'infrarosso dei satelliti galileiani, Callisto compreso. Nel 2007, la sonda New Horizons nel suo cammino verso Plutone ottenne nuove immagini e spettri di Callisto. La prossima missione prevista per il sistema di Giove è la Jupiter Icy Moon Explorer (JUICE) dell'Agenzia spaziale europea (ESA), che partirà nel 2022, durante la quale saranno previsti diversi sorvoli ravvicinati di Callisto. Precedentemente era stata proposta la Europa Jupiter System Mission (EJSM), un progetto congiunto di ESA e NASA per l'esplorazione delle lune gioviane. Tuttavia nel 2011 l'ESA annunciò che, a causa dei problemi di budget della NASA, era improbabile che la missione sarebbe stata possibile nei primi anni del 2020, e che avrebbe quindi puntato sulla JUICE. Callisto è il più esterno dei quattro satelliti galileiani e orbita ad una distanza di circa 1880000 km (equivalenti a 26,3 raggi gioviani) da Giove, significativamente maggiore rispetto a quella del vicino Ganimede (1 070 000 km). Per questo motivo Callisto non è in risonanza orbitale come lo sono invece i tre satelliti galileiani interni. Come la maggior parte delle altre lune regolari, la rotazione del Callisto è bloccata in rotazione sincrona con la sua orbita, di conseguenza la lunghezza del giorno di Callisto è pari al suo periodo orbitale, che è di circa 16,7 giorni. Percorre un'orbita quasi circolare e assai prossima al piano equatoriale di Giove, con eccentricità e Inclinazione orbitale che subiscono variazioni su una scala temporale di secoli a causa delle perturbazioni gravitazionali solari e planetarie. L'eccentricità varia da 0.0072 a 0,0076°, mentre l'inclinazione orbitale varia da 0,20 a 0,60°, ed entrambe contribuiscono a variare l'inclinazione assiale di Callisto tra 0,4 e 1,6°. L'isolamento dinamico di Callisto implica che non sia mai stato sensibilmente influenzato da maree gravitazionali, e ciò ha influito sulla sua evoluzione e sulla sua struttura interna. Data la sua distanza da Giove, il flusso di particelle cariche appartenenti alla magnetosfera gioviana che raggiungono la sua superficie è piuttosto basso (circa 300 volte inferiore rispetto a Europa) ed ha avuto effetti trascurabili su di essa, a differenza di quanto accaduto sugli altri satelliti galileiani. Il livello di radiazione sulla superficie di Callisto è equivalente a una dose di circa 0,01 rem (0,1 mSv) al giorno, sette volte inferiore alla radiazione che riceve la Terra. La densità media di Callisto, 1,83 g/cm³, suggerisce una composizione di parti approssimativamente uguali di materiale roccioso e ghiaccio d'acqua, con tracce di ghiacci volatili come l'ammoniaca.[8] La percentuale di massa di ghiacci presente è del 49-55 % mentre non è nota con esattezza la componente rocciosa, anche se probabilmente è simile alla composizione delle condriti ordinarie L e LL, che sono caratterizzate da un basso contenuto di ferro metallico e da una più abbondante presenza di ossido di ferro rispetto alle condriti H. La superficie di Callisto ha un'albedo di circa 0,2, cioè riflette il 20% della luce solare che riceve. Si ritiene che la composizione superficiale sia sostanzialmente simile a quella del resto del satellite. Osservazioni spettroscopiche nel vicino infrarosso hanno rivelato la presenza di bande di assorbimento del ghiaccio acqua a lunghezze d'onda di 1,04, 1,25, 1,5, 2,0 e 3,0 micrometri. Il ghiaccio d'acqua sembra essere onnipresente sulla superficie di Callisto, con una frazione della massa totale pari al 25-50%. L'analisi ad alta risoluzione degli spettri nel vicino infrarosso e nell'ultravioletto ottenuti dalla sonda Galileo hanno rivelato la presenza di diversi materiali non ghiacciati in superficie, come idrosilicati di ferro e magnesio, anidride carbonica, biossido di zolfo, e forse, ammoniaca e vari composti organici. I dati spettrali indicano anche che la superficie di Callisto è estremamente eterogenea su piccola scala. Piccole zone luminose formate da ghiaccio d'acqua pura sono miste a zone formate da una miscela di roccia e ghiaccio e ad estese aree scure di materiali non ghiacciati. La superficie di Callisto è asimmetrica: l'emisfero rivolto nella direzione del moto orbitale è più scuro dell'altro, al contrario di quanto accada sugli altri satelliti galileani. L'emisfero più scuro sembra più ricco in anidride solforosa rispetto all'altro, nel quale abbonda maggiormente l'anidride carbonica, elemento che pare associato a molti crateri da impatto di recente formazione, come il cratere Lofn. Generalmente la composizione chimica della superficie, specialmente quella delle aree scure, pare essere simile a quella degli asteroidi di tipo D, le cui superfici sono ricoperte di materiali carboniosi. La superficie butterata di Callisto sovrasta una litosfera gelida, spessa 80-150 km, mentre, ad una profondità di 50-200 km, si troverebbe uno strato di acqua liquida e salata dallo spessore di 10 km. Tale oceano interno è stato scoperto indirettamente attraverso studi del campo magnetico attorno a Giove e ai suoi satelliti più interni. Callisto, infatti, non possiede un campo magnetico proprio, ma solo un campo indotto che varia in direzione, in risposta alle diverse configurazioni orbitali del satellite rispetto al campo magnetico di Giove. Ciò suggerisce che all'interno di Callisto si trovi uno strato di fluido molto conduttivo. L'esistenza di un oceano sarebbe più probabile se l'acqua contenesse una piccola quantità di ammoniaca o altre sostanze antigelo, fino al 5% del peso. In tal caso, lo strato di acqua e ghiaccio potrebbe raggiungere uno spessore di 250-300 km. I modelli che non prevedono l'esistenza dell'oceano indicano un maggiore spessore per la litosfera ghiacciata, che potrebbe raggiungere una profondità di circa 300 chilometri. Un altro indizio a favore dell'esistenza dell'oceano interno è che l'emisfero del satellite direttamente opposto al bacino di Valhalla non mostra alcuna frattura, a differenza di quanto succede agli antipodi di crateri di simili dimensioni sulla Luna o su Mercurio. Uno strato liquido sarebbe probabilmente in grado di assorbire le onde sismiche prima che esse possano rifocalizzarsi sul punto opposto della crosta planetaria. Al di sotto dell'oceano, Callisto sembra presentare un nucleo particolare, non interamente uniforme, ma stabile. I dati della sonda Galileo suggeriscono che questo nucleo sia composto da roccia e ghiaccio compressi, con una percentuale di roccia crescente all'aumentare della profondità. Fra i satelliti galileiani Callisto è quello con la densità minore; esso si compone per il 40% di ghiaccio e il 60% di roccia e ferro, inoltre è solo parzialmente differenziato, al contrario di Ganimede, di dimensioni di poco maggiori. La densità e il momento d'inerzia sono compatibili con l'esistenza di un piccolo nucleo di silicati al centro di Callisto. Il raggio di tale nucleo non può superare i 600 km e la densità sarebbe compresa tra 3,1 e 3,6 g/cm³. Si ritiene che Titano e Tritone, due fra i principali satelliti del sistema solare, presentino una composizione analoga. Callisto è il satellite naturale più pesantemente craterizzato del sistema solare. A differenza del vicino Ganimede, che mostra un terreno variegato, Callisto non presenta evidenza di attività simili alla tettonica a placche. Pur trattandosi di due oggetti relativamente simili sembra che Callisto abbia avuto una storia geologica più semplice. In effetti, i crateri da impatto e gli anelli ad essi concentrici rappresentano le uniche strutture presenti su Callisto; non vi sono infatti grandi montagne o altre caratteristiche prominenti. Ciò è dipeso probabilmente dalla natura della superficie: lo scorrimento del ghiaccio in tempi geologici ha cancellato i crateri e le montagne più grandi. I crateri da impatto e le strutture multianello, le scarpate e i depositi ad esse associate sono le uniche grandi caratteristiche che si trovano sulla superficie. La superficie di Callisto è dominata da due enormi strutture: Valhalla (la più grande) presenta una regione centrale brillante larga 600 km e anelli concentrici che raggiungono i 3000 km di diametro; la seconda, Asgard, presenta un diametro esterno di 1400 km. Sono presenti inoltre delle catenae, come la Gipul Catena, una lunga serie di crateri da impatto in linea retta sulla superficie. L'origine di ciascuna di esse è da ricondursi all'impatto su Callisto di oggetti catturati dalla gravità gioviana e poi frammentati dalle forze di marea del pianeta (come accaduto alla Cometa Shoemaker-Levy 9). Alla crosta del satellite è stata assegnata un'età di circa 4,5 miliardi di anni, risalente quindi quasi alla formazione del sistema solare, mentre le strutture ad anelli concentrici hanno un'età compresa tra 1 e 4 miliardi di anni, a seconda delle fonti prese in considerazione. Callisto ha un'atmosfera molto tenue, composta da anidride carbonica, rilevata attraverso lo spettrometro nel vicino infrarosso a bordo della sonda Galileo. Si stima che sulla superficie sia raggiunta una pressione di 0,75 μPa ed una densità di 4×108 cm−3. Poiché un'atmosfera di tale entità sarebbe perduta dal satellite in circa 4 giorni, deve essere presente un meccanismo che la reintegra costantemente, probabilmente la sublimazione del ghiaccio di anidride carbonica presente sulla superficie, ipotesi compatibile con la formazione delle striature brillanti visibili sulla superficie. Callisto è dotato di una ionosfera, rilevata durante i sorvoli ravvicinati della sonda Galileo; i valori della densità elettronica, misurata in (7-17)×104 cm−3, non trovano spiegazione nella sola fotoionizzazione dell'anidride carbonica presente nell'atmosfera. Di conseguenza, si ritiene che l'atmosfera sia in realtà dominata da una seconda specie, presente in quantità 10 − 100 volte superiori rispetto alla CO2. Sebbene gli studiosi ritengano che possa trattarsi dell'ossigeno molecolare, non sono ancora riusciti a rilevarlo direttamente. Ciononostante, le osservazioni condotte con il telescopio spaziale Hubble hanno posto un limite superiore alla concentrazione dell'ossigeno (sulla base della sua mancata rilevazione) ancora compatibile con tale ipotesi. Il telescopio spaziale è invece riuscito ad individuare ossigeno condensato ed intrappolato sulla superficie della luna. Callisto si è formato probabilmente per lenta accrezione nella sub-nebulosa di Giove, un disco di gas e polveri che circondava il pianeta dopo la sua formazione. Tuttavia, a differenza di Ganimede è solo parzialmente differenziato, e questo è dovuto al fatto che probabilmente non si è mai riscaldato a sufficienza perché potesse sciogliersi la sua componente ghiacciata. La sua formazione è avvenuta in tempi stimabili da 100.000 a 10 milioni di anni. L'evoluzione geologica di Calisto dopo l'accrezione è determinata dall'equilibrio tra il riscaldamento radioattivo e il raffreddamento dovuto alla conduzione termica nei pressi della superficie e la convezione dello stato solido nell'interno del satellite. È noto che questa convezione si verifica quando la temperatura è abbastanza vicina al punto di fusione del ghiaccio ed è un processo lento, con movimenti del ghiaccio dell'ordine di 1 cm all'anno, tuttavia molto efficace per lunghi periodi temporali. La precoce convezione subsolida nell'interno di Callisto avrebbe impedito la fusione del ghiaccio su larga scala e la completa differenziazione, che avrebbe formato un nucleo roccioso circondato da un mantello di ghiaccio. A causa del processo di convezione, la lenta e parziale separazione e differenziazione di rocce e ghiacci all'interno Callisto è proceduta per miliardi di anni ed è possibile che stia continuando anche nell'epoca attuale. L'attuale comprensione dell'evoluzione di Callisto non pregiudica l'esistenza di un oceano di acqua liquida sotto la superficie, per via del comportamento "anomalo" del punto di fusione del ghiaccio, che diminuisce all'aumentare della pressione, e che arriva a 251 K (-22 °C) quando la pressione raggiunge i 2 070 bar. In tutti i modelli realizzati su Callisto la temperatura nello strato compreso tra 100 e 200 km di profondità è molto vicina, o supera leggermente, questa temperatura di fusione anomala. La presenza anche di piccole quantità di ammoniaca (1-2% della massa), garantirebbe l'esistenza del liquido poiché l'ammoniaca abbasserebbe ulteriormente la temperatura di fusione. A differenza del vicino Ganimede, che mostra un terreno variegato, Callisto non presenta evidenza di attività simili alla tettonica a placche. Pur trattandosi di due oggetti relativamente simili sembra che Callisto abbia avuto una storia geologica più semplice. Questa differenza è un problema di notevole interesse per la planetologia. Come Europa e Ganimede, si pensa che la vita microbica extraterrestre potrebbe esistere in un oceano salato sotto la superficie di Callisto.[16] Tuttavia, le condizioni sembrano essere meno favorevoli su Callisto che su Europa. Le principali ragioni sono la mancanza di contatto con materiale roccioso e il minor flusso di calore proveniente dall'interno di Callisto.[16] Lo scienziato Torrence Johnson, confrontando le probabilità di vita su Callisto e su altre lune galileiane a proposito disse:

«Gli ingredienti di base per la vita, che noi chiamiamo "chimica pre-biotica", sono abbondanti in molti oggetti del sistema solare, come le comete, gli asteroidi e lune ghiacciate. I biologi ritengono che l'acqua liquida e l'energia siano necessari per sostenere realmente la vita, quindi è emozionante trovare un altro posto dove esiste acqua allo stato liquido. Ma l'energia è un'altra cosa, e mentre l'oceano di Callisto viene riscaldato solo da elementi radioattivi, Europa ha dalla sua l'energia delle maree e la maggiore vicinanza a Giove.»

Sulla base di queste considerazioni e di altre osservazioni scientifiche, si pensa che di tutte le lune galileiane di Giove, Europa sia quella con la maggiore possibilità di sostenere la vita microbica.  

Giove per gli esseri umani

La grande luminosità di Giove, che lo rende ben visibile nel cielo notturno, lo ha reso oggetto di numerosi culti religiosi da parte delle civiltà antiche, per prime le civiltà mesopotamiche. Per i Babilonesi, il pianeta rappresentava Marduk, il primo fra gli dei e il creatore dell'uomo. L'analogo greco di Marduk era Zeus (in greco antico Ζεύς), che era spesso poeticamente chiamato con il vocativo Ζεῦ πάτερ (Zeu pater, O padre Zeus!). Il nome è l'evoluzione di Di̯ēus, il dio del cielo diurno della religione protoindoeuropea, chiamato anche Dyeus ph2tēr (Padre Cielo). Il dio era conosciuto con questo nome anche in sanscrito (Dyaus/Dyaus Pita) e in latino (Iuppiter, originariamente Diespiter), lingue che elaborarono la radice *dyeu- ("splendere" e nelle sue forme derivate "cielo, paradiso, dio"); in particolare, il nome latino della divinità, che deriva dal vocativo *dyeu-ph2tēr, presenta molte analogie con il sostantivo deus-dīvus (dio, divino) e dis (una variazione di dīves, ricco) che proviene dal simile sostantivo *deiwos. Zeus/Giove è quindi l'unica divinità del Pantheon olimpico il cui nome abbia un'origine indoeuropea così marcata. Zeus/Giove era re degli dei, sovrano dell'Olimpo, dio del cielo e del tuono. Famoso per le sue frequentissime avventure erotiche extraconiugali, fu padre di divinità, eroi ed eroine e la sua figura è presente nella maggior parte delle leggende che li riguardano. Dalla medesima radice indoeuropea trae origine anche il nome dell'equivalente nella religione germanica e in quella norrena (*Tīwaz, confronta in alto tedesco antico Ziu e in norreno Týr). Tuttavia, se per Greci e Romani il dio del cielo era anche il più grande degli dei, nelle culture nordiche questo ruolo era attribuito ad Odino: di conseguenza questi popoli non identificavano, per il suo attributo primario di dio del tuono, Zeus/Giove né con Odino né con Tyr, quanto piuttosto con Thor (Þórr). Da notare comunque come il quarto giorno della settimana sia dedicato da entrambe le culture, quella greco romana e quella nordica, come il giorno dedicato a Giove: giovedì deriva infatti dal latino Iovis dies, mentre l'equivalente inglese, Thursday, significa Thor's day, ossia giorno di Thor.

Giove: il modello di una tipologia di pianeti

Le caratteristiche di Giove sono spesso state usate come punto di riferimento per la misurazione dei parametri degli altri pianeti. Massa e raggio gioviani vengono usati come unità di misurazione ma spesso altre caratteristiche del pianeta vengono evidenziate in altri sistemi planetari: atmosfera, composizione... Da Giove deriva anche il nome di una tipologia di pianeti che hanno questi parametri in comune col Gigante del Sistema Solare. L'unica differenza sostanziale: la temperatura.  Un pianeta gioviano caldo (anche noto come Giove caldo, o più raramente con l'appellativo di pianeta di tipo Pegasi) è un pianeta extrasolare la cui massa è confrontabile o superiore a quella di Giove (1,9×1027kg), ma che, a differenza di quanto avviene nel sistema solare, dove Giove orbita a circa 5 UA dal Sole, orbita molto vicino alla propria stella madre, tipicamente tra 0,5 UA (75×106km) e 0,015 UA (2,2×106km). Un tipico pianeta gioviano caldo è otto volte più vicino alla superficie della propria stella rispetto a quanto Mercurio dista dal Sole. La temperatura di questi oggetti è quindi di solito elevatissima, da qui l'aggettivo caldo. Il più conosciuto di questi e modello base di tale classe di pianeti, è 51 Pegasi b, soprannominato Bellerofonte. È stato inoltre il primo pianeta extrasolare scoperto (1995) in orbita attorno a una stella simile al Sole. HD 209458 b, soprannominato Osiris, è un altro gioviano caldo molto conosciuto per il fatto che perde dalle 100 alle 500 milioni di tonnellate di idrogeno al secondo sotto l'effetto del vento stellare del proprio astro madre, in ragione della sua orbita dal raggio di sole 0,047 UA. Questi pianeti appartengono generalmente alle classi IV e V della classificazione di Sudarsky, anche se la loro composizione si può discostare sensibilmente dalla definizione, come per esempio WASP-12 b, più simile a un pianeta di carbonio.

  • I pianeti gioviani caldi hanno una maggiore possibilità di transitare davanti alla propria stella madre, quando osservati dalla Terra, rispetto ad altri pianeti dalle dimensioni simili ma dall'orbita più grande.
  • La loro densità è generalmente minore di quella di Giove, a causa dell'alto livello di insolazione; questo si riflette sui metodi per la determinazione del loro raggio, resa ancor più difficoltosa dal fenomeno dell'oscuramento al bordo che impedisce di stabilire precisamente il momento di inizio e di termine del transito.
  • Si ritiene che tutti abbiano subìto un processo di migrazione planetaria, perché il materiale presente nelle parti più interne del disco protoplanetario non è tale da rendere possibile la formazione di un gigante gassoso in situ.
  • Sono tutti accomunati da una bassa eccentricità orbitale. Questo perché la loro orbita è stata resa circolare, o è in fase di circolarizzazione, dal processo di librazione. Tale processo causa anche la sincronizzazione dei periodi di rotazione e di rivoluzione del pianeta, forzandolo così in un regime di rotazione sincrona e quindi a rivolgere sempre la stessa faccia alla stella madre. Si dice che il pianeta è in una situazione di blocco mareale.
  • Mostrano di possedere un forte rimescolamento atmosferico, prodotto dai venti ad alta velocità che ridistribuiscono il calore del lato diurno nel lato notturno, rendendo così la differenza di temperatura tra i due lati relativamente bassa.

Si pensa che i gioviani caldi si formino a una distanza dalla stella oltre la frost line, dove i pianeti possono formarsi per accrescimento secondario da roccia, ghiaccio e gas. Il pianeta in seguito migra verso le regioni interne del sistema, dove si assesterà in un'orbita stabile, e di solito ciò avviene tramite una migrazione di tipo II o per interazioni con altri pianeti. La migrazione avviene durante la fase di disco protoplanetario, e si ferma tipicamente quando la stella entra nella fase T Tauri. I forti venti stellari a questo punto soffiano via il materiale rimanente della nebulosa, bloccando i processi di accrescimento e migrazione. L'eccessiva vicinanza del pianeta alla stella può causare anche l'abrasione della sua atmosfera, tramite il processo di fuga idrodinamica, sotto l'azione dei potenti venti stellari. Questi pianeti sono anche definiti "pianeti dal periodo ultracorto".

Come scoprire un gioviano caldo

Transito

La scoperta avviene monitorando per molto tempo la luce di una stella, e se questa hai dei picchi di bassa luminosità a intervalli regolari allora se ne studia la curva di luce. Dalla forma di questa curva si può risalire all'esistenza e in seguito al diametro di un eventuale oggetto transitante. Un pianeta gioviano è di diametro ragguardevole, sia rispetto agli altri pianeti del suo stesso sistema e sia rispetto al diametro della stella stessa. Essendo inoltre molto vicino alla stella madre è molto più facile che dalla Terra lo si veda transitare davanti ad essa, in quanto il diametro e la vicinanza compensano l'eventuale inclinazione dell'orbita, che renderebbe il pianeta non transitante se avesse un'orbita più larga. A dimostrazione di ciò, la gran parte dei pianeti extrasolari finora scoperti dalle missioni dedicate ai pianeti transitanti appartiene a questa categoria. Servono quindi strumenti sempre più precisi per rilevare pianeti sempre più piccoli. Ultimamente l'aumento di sensibilità degli strumenti per lo studio dei transiti stellari, quali i telescopi delle missioni CoRoT e Kepler, ha portato ad un netto aumento del numero dei pianeti nettuniani e superterrestri transitanti rispetto ai gioviani caldi. L'ulteriore evoluzione delle tecnologie impiegate probabilmente porterà a breve anche alla scoperta dei primi pianeti di dimensioni terrestri e delle prime esolune.

Velocità radiali

Un pianeta gioviano caldo, essendo molto vicino alla propria stella, esercita su questa un'attrazione gravitazionale che la fa oscillare. Dalla Terra possiamo, tramite l'effetto doppler, misurarne e calcolarne la velocità e periodo di oscillazione e, conoscendo la massa della stella, ricavare massa e orbita del pianeta. Tale sistema ci permette di scoprire il pianeta anche se questo non si interponesse direttamente tra di noi e la stella. Di nuovo sono i gioviani caldi la categoria a essere più rilevata con tale sistema, in quanto solo un pianeta molto massiccio e molto vicino alla propria stella può influenzarla abbastanza da generare oscillazioni rilevabili dai nostri strumenti. Un pianeta come Giove posto alla distanza di un gioviano caldo genera effetti migliaia di volte maggiori che alla distanza a cui si trovano i giganti gassosi del sistema solare. Tale metodo è utilizzato essenzialmente da osservatori a terra, quali il progetto HARPS.

Una simulazione ha mostrato che la migrazione di pianeti gioviani attraverso il disco protoplanetario interno (la regione che nel sistema solare è occupata dai pianeti rocciosi e dalla cintura di asteroidi, approssimativamente tra 5 e 0,1 UA) non è distruttiva così come si potrebbe pensare. Più del 60% del materiale del disco sopravvive venendo disperso verso orbite esterne dal gigante gassoso, insieme a planetesimi e protopianeti. Il disco è così in grado di riformarsi e la formazione planetaria di riprendere. Nella simulazione sono stati in grado di formarsi pianeti fino a due masse terrestri nella fascia abitabile, dopo che il gigante gassoso si è stabilizzato a 0,1 UA. La simulazione mostra inoltre che, per il mescolamento dei materiali del sistema planetario interno con materiali provenienti da quello esterno, gli eventuali pianeti terrestri formatisi dopo il passaggio del gigante in migrazione sarebbero particolarmente ricchi di acqua, gli ipotetici pianeti oceano, mentre, al contrario, potrebbero essere carenti di materiali rocciosi. Tuttavia, esistono ancora diversi dubbi sulla possibile formazione di pianeti terrestri abitabili ove è presente un gioviano caldo nelle parti interne del sistema. È stato scoperto che molti gioviani caldi possiedono orbite retrograde, e ciò pone in discussione le teorie sulla formazione dei sistemi planetari. È probabile che questo fenomeno sia dovuto, più che a un disturbo dell'orbita del pianeta, al ribaltamento della stella stessa durante le prime fasi di formazione del proprio sistema, dovuto all'interazione tra il campo magnetico della stella e il disco protoplanetario. Combinando nuove osservazioni con i vecchi dati si è scoperto che più della metà dei gioviani caldi studiati ha orbite disallineate con l'asse di rotazione delle loro stelle madri, e ben sei hanno moto retrogrado.

Pianeti dal periodo ultracorto

I pianeti dal periodo ultracorto sono una classe di gioviani caldi il cui periodo di rivoluzione è inferiore al giorno terrestre; essi si trovano solo attorno a stelle di massa inferiore alle 1,25 masse solari. Orbitano più vicino alla loro stella di ogni altro oggetto descritto precedentemente, con semiassi dell'orbita dell'ordine di solo qualche milione di chilometri. Molto spesso il pianeta è talmente vicino alla propria stella che il vento stellare di questa ne sta consumando l'atmosfera, strappando milioni di tonnellate di gas ogni secondo. Pianeti gioviani a 0,02 UA dalla stella perderanno durante la propria vita fino al 5-7% circa della propria massa, mentre una distanza inferiore può causare la totale evaporazione dell'involucro gassoso, lasciando come residuo il nucleo roccioso completamente spogliato. Tali oggetti possiedono masse di una decina circa di masse terrestri, sono più densi di un pianeta di tipo terrestre e sono definiti pianeti ctoni. Un esempio di pianeta gigante dal periodo ultracorto è WASP-18 b, probabilmente nella stessa situazione di abrasione atmosferica del già citato HD 209458 b, mentre CoRoT-7 b è il primo rappresentante scoperto della classe dei pianeti ctoni.

Puffy Planets

Tradotto letteralmente pianeti paffuti, gonfi, sono pianeti giganti gassosi dal grande raggio e dalla bassa densità, e per questo anche chiamati saturniani caldi, per la somiglianza della loro densità con quella di Saturno. Sono gioviani caldi la cui atmosfera, fortemente riscaldata dalla stella molto vicina e dal calore interno, si espande e gonfia, fino a fuoriuscire talvolta dal campo gravitazionale del pianeta e ad essere strappata via dal vento stellare. Sei pianeti rappresentativi di questa categoria sono stati rilevati con il metodo del transito; in ordine di scoperta sono HAT-P-1 b, CoRoT-1 b, TrES-4, WASP-12 b, WASP-17 b, e Kepler-7 b. La gran parte di questi pianeti hanno masse inferiori alle due masse gioviane, perché pianeti più massicci avrebbero anche gravità maggiore, che contribuirebbe a contenere il raggio del pianeta entro valori simili a quelli di Giove stesso. Alcuni gioviani caldi rilevati con il metodo delle velocità radiali potrebbero essere puffy planets, ma non conoscendone i raggi non se ne ha la certezza. Nel 2019, osservazioni col telescopio spaziale Hubble su tre pianeti scoperti nel 2012 e orbitanti attorno alla giovane stella di tipo solare Kepler-51, hanno rivelato delle densità ancora minori, meno di un decimo di quella dell'acqua, comprese tra 0,034 e 0,064 g/cm³. Per comparazione, il pianeta meno denso del sistema solare, Saturno, con una densità di 0,69 g/cm³ è circa 20 volte più denso dei pianeti di Kepler-51.

Morte dei gioviani caldi

Orbita instabile

E' possibile che un pianeta gioviano caldo si avvicini troppo alla stella. Il campo gravitazionale di quest'ultima farà accelerare la migrazione del pianeta che finirà per schiantarsi contro la stella madre.

Perdita di gas

Un pianeta che si avvicina in modo estremo alla stella, senza, però, entrare in collisione con essa, inizierà a perdere gas che formeranno una specie di anello attorno alla stella madre. Essendo i gioviani composti prevalentemente di gas, dopo qualche milione di anni, l'intero pianeta non esisterà più. Al suo posto sorgerà un anello di gas che finirà per cadere nella stella. A volte la vicinanza della stella crea semplici code dietro il pianeta, che perde i gas esattamente come una cometa perde vapore acqueo. In questo caso non si forma nessun anello, ma il risultato è altrettanto spettacolare.


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