Nebulose
Nel cosmo le nebulose sono apparentemente i corpi più semplici che esistono. Ma, in realtà, nascondono grandi misteri. Seguiteci su Eagle sera per saperne di più.
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Cosa sono le nebulose
Una nebulosa (dal latino nebula, nuvola) è un agglomerato interstellare di polvere, idrogeno e plasma. Originariamente il termine nebulosa veniva impiegato per indicare un qualsiasi oggetto astronomico di grandi dimensioni di natura non stellare né planetaria né cometaria, quindi comprendeva anche quelle che oggi sono note come galassie (per esempio, la Nebulosa di Andromeda faceva riferimento alla Galassia di Andromeda prima che le galassie venissero scoperte da Edwin Hubble). Alcune nebulose sono caratterizzate dall'ospitare al loro interno fenomeni di formazione stellare, come le nubi molecolari, le nebulose oscure e le regioni H II; altre, come le nebulose a riflessione, brillano della luce emessa da una stella che transita al loro interno, come NGC 1435 che circonda la stella Merope delle Pleiadi. Altre nebulose ancora si originano a seguito della morte di una stella, come le nebulose planetarie o i resti di supernova.
Approfondiamo: le regioni H II
Una regione H II (pronunciato regione acca secondo) è una nebulosa a emissione associata a stelle giovani, blu e calde (dei tipi OB, nell'angolo superiore del diagramma H-R). H II è il termine che indica l'idrogeno ionizzato, e le regioni H II sono nubi di gas ionizzato dalla radiazione ultravioletta emessa dalle stelle giovani. Le zone di formazione stellare si trovano infatti sempre in corrispondenza di questo tipo di oggetti nebulosi. La grandezza di una regione H II è determinata sia dall'ammontare di gas presente, sia dalla luminosità delle stelle O e B: più luminose esse sono, più grande è la regione H II. Il suo diametro è generalmente dell'ordine di alcuni anni luce. Si trovano nei bracci di spirale delle galassie, perché è in essi che la maggior parte delle stelle si formano. Sono tra le caratteristiche più grandi e visibili dei bracci, e sono state rivelate anche in galassie di alto spostamento verso il rosso. Nella Via Lattea, ne sono esempi la Nebulosa di Orione e la Nebulosa Aquila. In luce visibile, sono caratterizzate dal loro colore rosso, causato dalla forte linea di emissione dell'idrogeno a 656,3 nanometri. Oltre all'idrogeno si trovano, in misura minore, anche altre specie atomiche. In particolare si osservano comunemente le linee proibite dell'ossigeno, dell'azoto e dello zolfo. Le regioni H II hanno vita piuttosto breve, in termini astronomici: dipendenti come sono dalle giovani e grandi stelle che forniscono l'energia necessaria, diventano invisibili dopo che queste stelle muoiono, e le stelle di grande massa hanno una vita di pochi milioni di anni, o al massimo di poche decine di milioni. Le regioni H II sono le nebulose diffuse più brillanti del cielo, che appaiono luminose a causa della presenza di giovani stelle calde e blu, che ionizzano il gas facendogli emettere luce. Le nebulose più brillanti si osservano nell'emisfero australe, poiché è in questa direzione che si trova il braccio di spirale in cui giace il nostro sistema solare, il Braccio di Orione. Nonostante ciò, il primato di nebulosa più brillante del cielo spetta ad una regione H II posta a ben 9000 anni luce da noi, in un altro braccio galattico: si tratta della Nebulosa della Carena, il più grande complesso nebuloso brillante finora noto all'interno della nostra Galassia; segue la ben nota Nebulosa di Orione, visibile da quasi tutte le aree della Terra. Altre nebulose notevoli sono la Nebulosa Laguna e la Nebulosa Trifida, tutte poste nell'emisfero australe, nella costellazione del Sagittario. L'unica regione H II brillante dell'emisfero boreale è la Nebulosa Rosetta, visibile nella costellazione dell'Unicorno. Un binocolo o, meglio, un piccolo telescopio, consente di poter osservare senza difficoltà anche altre nebulose dello stesso tipo. Alcune delle regioni H II più luminose sono visibili ad occhio nudo; nonostante ciò, non sembra che ci siano riferimenti su questi oggetti prima dell'avvento del telescopio, all'inizio del Seicento. Persino Galileo non menzionò la brillante Nebulosa di Orione, sebbene fosse stato il primo ad osservarne l'ammasso stellare associato (catalogato in precedenza con la sigla θ Orionis da Johann Bayer). L'osservatore francese Nicolas-Claude Fabri de Peiresc fu invece il primo a riconoscere la nebulosità nell'area centrale della Spada di Orione, nel 1610; da allora sono state scoperte un gran numero di regioni H II, sia appartenenti alla nostra Via Lattea, che in altre galassie. William Herschel osservò la Nebulosa di Orione nel 1774, descrivendola come "un'informe foschia ardente, il caotico materiale dei soli futuri".[3] Affinché questa ipotesi (eccezionale per l'epoca) fosse confermata si dovette attendere un altro centinaio di anni, quando William Huggins (assistito dalla moglie Mary Huggins) rivolse il suo spettroscopio su diverse nebulose. Alcune, come la Nube di Andromeda, possedevano uno spettro molto simile a quello delle stelle, e furono in seguito riconosciute come galassie, ossia insiemi di centinaia di milioni di stelle individuali. Altri oggetti sembravano invece molto differenti; più che un forte continuum con linee di assorbimento sovrapposte, la Nebulosa di Orione ed altri oggetti simili mostravano solo un piccolo numero di linee di emissione. La più brillante di queste si trovava alla lunghezza d'onda di 500,7 nanometri, che non corrispondeva alle linee di alcun elemento chimico noto; fu inizialmente ipotizzato che si trattasse di un elemento fino ad allora sconosciuto, a cui fu dato il nome di nebulium. La scelta di questo nome fu dettata dal fatto che si osservava solo nelle nebulose; una simile associazione di idee fece sì che ad un elemento scoperto tramite l'analisi dello spettro solare, nel 1868, venisse assegnato il nome Elio. Tuttavia, mentre l'elio fu isolato a breve distanza dalla sua scoperta, il nebulium non veniva isolato. Nei primi anni del Novecento Henry Norris Russell propose che invece di trattarsi di un elemento sconosciuto, il "nebulium" non fosse altro che un elemento ben conosciuto, ma sotto condizioni chimico-fisiche non familiari. I fisici mostrarono negli anni venti che nel gas a densità estremamente bassa gli elettroni possono popolare i livelli energetici metastabili eccitati negli atomi e ioni che a densità maggiori vengono rapidamente de-eccitati dalle collisioni. Le transizioni di elettroni da questi livelli negli atomi e negli ioni dell'ossigeno doppiamente ionizzato dà luogo alle emissioni a 500,7 nm. Queste linee spettrali, che si osservano in gas a densità molto bassa, sono chiamate linee proibite. Le osservazioni spettroscopiche indicarono che le nebulose sono composte da gas estremamente rarefatto. Durante il Novecento altre osservazioni mostrarono che le regioni H II spesso contengono stelle calde e luminose, ben più massicce del nostro Sole e di vita media molto breve, di appena pochi milioni di anni (stelle come il Sole possono arrivare ad oltre 10 miliardi di anni). Per questo motivo si è ipotizzato che le regioni H II debbano essere le regioni in cui avviene la formazione stellare; in un periodo di alcuni milioni di anni, da una regione H II si forma un ammasso di stelle, prima che la pressione di radiazione delle giovani stelle massicce faccia disperdere il gas residuo della nube. Si possono osservare diversi esempi di questi processi di dispersione dei gas residui; le Pleiadi tuttavia sono solo un esempio apparente di ciò, dato che si è dimostrato che il gas osservabile fra le sue componenti non appartiene alla nube originaria da cui si sono formate, ma a una regione di polveri indipendente in cui l'ammasso si trova ora a transitare. Il precursore di una regione H II è una nube molecolare gigante; quest'ultima è una nube densa e molto fredda (appena 10-20 K) composta soprattutto da idrogeno molecolare. Può esistere in uno stato stabile per un lungo periodo di tempo, finché delle onde d'urto causate dall'esplosione di una supernova, dalla collisione fra nubi e dalle interazioni magnetiche fanno scattare dei fenomeni di collasso in diversi punti della nube. Quando ciò avviene, a seguito di un processo di collasso e frammentazione della nube originaria si formano le stelle. Dopo la loro formazione, le stelle più massicce diventano calde a sufficienza da essere in grado di ionizzare il gas circostante; poco dopo la formazione di un campo di radiazione ionizzante, i fotoni creano un fronte di ionizzazione, che fa disperdere il gas circostante ad una velocità supersonica. A distanze via via maggiori dalla stella ionizzante il fronte di ionizzazione rallenta, mentre la pressione del nuovo gas ionizzato causa l'espansione del volume ionizzato. In quel caso, il fronte di ionizzazione rallenta fin sotto la velocità del suono e viene superato dal fronte dell'onda d'urto causato dall'espansione della nube: si è formata una regione H II. La vita media di una regione H II è dell'ordine di pochi milioni di anni. La pressione di radiazione proveniente dalle stelle calde e giovani può far disperdere la maggior parte del gas residuo; infatti, il processo di formazione stellare tende ad essere molto inefficiente, nel senso che meno del 10% del gas di una regione H II collassa per formare nuove stelle prima che il restante venga spazzato via. Un altro fenomeno che può contribuire alla dispersione del gas, sono le esplosioni come supernovae delle stelle più massicce appena formate, il che avviene dopo appena 1-2 milioni di anni dalla formazione dell'ammasso. La nascita delle stelle in atto nella nostra epoca ci viene celata dalle densissime nubi di gas e polveri che circondano le stelle nascenti. Soltanto quando la pressione di radiazione della stella neonata spazza via il guscio nebuloso in cui si trovavano, queste diventano visibili; prima di ciò, le regioni dense che contengono le stelle di nuova generazione si mostrano come dei bozzoli scuri contrastanti con il chiarore diffuso del resto della nube ionizzata. Questi bozzoli sono chiamati globuli di Bok, dal nome dell'astronomo Bart Bok che negli anni quaranta li propose come luoghi di nascita delle stelle. La conferma dell'ipotesi di Bok giunse solo nel 1990, quando le osservazioni nell'infrarosso penetrarono la polvere spessa dei globuli di Bok per rivelare al loro interno degli oggetti stellari giovani. Si pensa che un tipico globulo di Bok contenga circa 10 masse solari di materiale in una regione di circa un anno luce di diametro, e che essi diano luogo alla formazione di sistemi stellari doppi o multipli. Quali luoghi di nascita delle stelle, le regioni H II mostrano anche evidenze della presenza di sistemi planetari. Il telescopio spaziale Hubble ha rivelato centinaia di dischi protoplanetari nella Nebulosa di Orione; almeno la metà delle stelle giovani in questa nebulosa appaiono circondate da dischi di gas e polveri, che si pensa contengano molta più materia di quanto sarebbe necessaria per formare un sistema planetario come il nostro. Le regioni H II possiedono una grande varietà di caratteristiche fisiche. Esse variano dalle cosiddette regioni ultracompatte di appena un anno luce di diametro (o anche meno), fino alle regioni H II giganti dal diametro di diverse centinaia di anni luce. La loro dimensione è anche nota come sfera di Strömgren e dipende essenzialmente dall'intensità della sorgente dei fotoni ionizzanti e dalla densità della regione in sé; quest'ultima varia da oltre un milione di particelle per cm³ delle regioni ultracompatte fino ad appena poche particelle per cm³ nelle regioni più estese. Ciò implica una massa totale fra le 102 e le 105 masse solari. A seconda delle dimensioni di una regione H II possono esserci fino ad alcune migliaia di stelle al suo interno; ciò rende questo tipo di oggetti molto più complessi di una semplice nebulosa planetaria, che ha solo una singola stella centrale ionizzatrice. Di solito le regioni H II raggiungono una temperatura di 10.000 K; sono in gran parte ionizzate e il gas ionizzato (plasma) può contenere dei campi magnetici con un'intensità di alcuni nanotesla. Inoltre molto spesso le regioni H II sono associate con del gas molecolare freddo, che ha origine nella stessa nube molecolare gigante progenitrice. I campi magnetici sono prodotti da cariche magnetiche in movimento nel plasma, il che suggerisce che le regioni H II contengano anche campi elettrici. Chimicamente, le regioni H II sono formate per il 90% da idrogeno. Le linee di emissione più forti dell'idrogeno, a 656,3 nm, sono responsabili del tipico colore rosso di questi oggetti; gran parte della percentuale restante è occupata dall'elio, a cui si aggiungono delle tracce di elementi più pesanti. Lungo la galassia, si è scoperto che gli elementi pesanti delle regioni H II decrescono con l'aumento della distanza dal centro galattico; ciò avviene poiché lungo la vita di una galassia il tasso di formazione stellare è maggiore nelle dense regioni centrali, fenomeno che ha come effetto ultimo un arricchimento di questi elementi del mezzo interstellare a seguito della nucleosintesi. Le regioni H II si rinvengono nelle galassie a spirale come la nostra o nelle galassie irregolari, mentre non si osservano mai nelle galassie ellittiche. Nelle galassie irregolari si possono trovare in tutte le aree della galassia, mentre nelle spirali si trovano quasi esclusivamente nei bracci di spirale. Una grande galassia a spirale come la nostra può contenere migliaia di regioni H II. La ragione per cui questo tipo di oggetti non si rinviene nelle galassie ellittiche, è che si crede che queste si siano formate a causa di fusioni fra galassie. Negli ammassi di galassie, questo tipo di scontri sono frequenti; quando le galassie entrano in collisione, le stelle individuali quasi mai collidono tra di loro, ma le nubi molecolari giganti e le stesse regioni H II ne vengono fortemente perturbate. Durante queste collisioni si sviluppano fenomeni di formazione stellare giganteschi ed intensissimi, talmente rapidi che la gran parte del gas viene convertito in stelle, a fronte del normale 10% o meno. Le galassie che subiscono questo fenomeno sono note come galassie starburst. La galassia ellittica che ne risulta ha un contenuto di gas estremamente basso, cosicché le regioni H II non si possono più formare. Le osservazioni condotte negli anni duemila hanno mostrato l'esistenza di alcune rarissime regioni H II anche all'esterno delle galassie; questi oggetti extragalattici sono probabilmente ciò che rimane di galassie nane disgregate a seguito delle maree galattiche. È possibile osservare una grande varietà di dimensioni di regioni H II, con strutture diverse. In molti di questi oggetti, gli ammassi aperti sono già formati e tendono a diventare visibili. Ogni stella interna ad uno di questi oggetti ionizza una regione grosso modo sferica, chiamata sfera di Strömgren, di gas che la circonda, ma la combinazione delle sfere ionizzate di stelle multiple in una regione H II e dell'espansione della parte della nebulosa riscaldata all'interno del gas circostante, causa delle forme estremamente complesse; anche le esplosioni di supernova sono in grado di modellare le regioni gassose. In alcuni casi, la formazione di un grande ammasso aperto dentro una regione H II causa la formazione di una sorta di "bolla" in cui il gas è stato spazzato via; un caso tipico è quello della Nebulosa Rosetta, come pure di NGC 604, quest'ultima una regione H II gigante visibile nella Galassia del Triangolo. Regioni H II notevoli sono la Nebulosa della Carena, la Nebulosa di Orione e il complesso Berkely 59 / Cepheus OB4, facente parte del Complesso nebuloso molecolare di Cefeo. La nebulosa di Orione, che si trova ad una distanza di circa 1500 anni luce da noi, è parte di una vasta nube molecolare gigante, nota come Complesso nebuloso molecolare di Orione, il quale se fosse visibile ad occhio nudo ricoprirebbe la gran parte della costellazione di Orione. La Nebulosa Testa di Cavallo e l'Anello di Barnard sono altre due parti illuminate di questa nube di gas. La Grande Nube di Magellano, una galassia satellite della nostra Via Lattea, contiene una regione H II gigante chiamata Nebulosa Tarantola; questa nube è estremamente più grande della Nebulosa di Orione e al suo interno sono in formazione migliaia di stelle, alcune con una massa cento volte superiore a quella del nostro Sole. Se la Nebulosa Tarantola si trovasse alla stessa distanza da noi della Nebulosa di Orione, avrebbe la stessa luminosità di quella della luna piena nel cielo notturno. La supernova SN 1987a esplose nelle aree periferiche di questa nebulosa. NGC 604 è anche più grande della Nebulosa Tarantola, essendo larga 1300 anni luce circa, sebbene contenga un po' meno stelle; è una delle più grandi regioni H II del Gruppo Locale. Così come per le nebulosa planetarie, la determinazione dell'abbondanza degli elementi nelle regioni H II è soggetta ad alcune incertezze. Vengono attualmente utilizzati due metodi diversi per determinare l'abbondanza dei metalli (ossia, in astronomia, elementi più pesanti dell'idrogeno e dell'elio) nelle nebulose, e i risultati che si ottengono tramite i due metodi spesso sono molto diversi fra loro. Alcuni astronomi attribuiscono ciò alla presenza di piccole fluttuazioni di temperatura nelle regioni H II, altri affermano che le discrepanze sono troppo grandi per essere spiegate dall'effetto della temperatura ed ipotizzano l'esistenza di addensamenti freddi contenenti bassissime quantità di idrogeno. Non sono inoltre ancora ben chiari i processi degli intensi fenomeni di formazione stellare all'interno delle regioni H II. Due problemi maggiori si riscontrano nel condurre ricerche su questi oggetti: il primo è dovuto alla distanza fra noi e i maggiori complessi di regioni H II, dato che la regione H II più vicina a noi si trova ad oltre 1000 anni luce; il secondo riguarda il forte oscuramento delle stelle in formazione a causa delle polveri, cosicché condurre osservazioni nella banda della luce visibile risulta impossibile. Le onde radio e la luce infrarossa possono penetrare queste polveri, ma le stelle più giovani possono anche non emettere molta luce a queste lunghezze d'onda.
Molte nebulose si formano grazie al collasso gravitazionale del gas presente nel mezzo interstellare. Mentre la materia collassa sotto il proprio peso, al centro si possono formare delle stelle massive che ionizzano il gas circostante con la loro radiazione ultravioletta, creando del plasma (il quarto stato della materia). Un esempio di questo tipo di nebulosa sono la Nebulosa Rosetta o la Nebulosa Pellicano. Le dimensioni di queste nebulose variano in base alla grandezza originaria della nuvola di gas. Alcune nebulose sono il risultato dell'esplosione di una supernova. La materia scagliata via dall'esplosione viene ionizzata dai residui della supernova. Il migliore esempio di questo tipo di nebulosa è la Nebulosa del Granchio nella costellazione del Toro. È il risultato della supernova SN 1054, registrata nel 1054. il centro della nebulosa è una stella di neutroni creata durante l'esplosione. Altre nebulose possono diventare nebulose planetarie. Questo è l'ultimo stadio della vita di una stella di bassa massa come il nostro Sole. Le stelle con una massa di 8-10 masse solari, si evolvono in gigante rossa e lentamente perdono i loro strati esterni durante le pulsazioni nella loro atmosfera. Quando una stella ha perso una quantità sufficiente di materia, la sua temperatura aumenta e la radiazione ultravioletta emessa è capace di ionizzare la nebulosa circostante che è stata spazzata via. La maggior parte delle nebulose è diffusa e ciò significa che sono molto estese e che non hanno dei confini ben definiti. Nella luce visibile queste nebulose possono essere suddivise in nebulose a emissione e in nebulose a riflessione in base a come viene creata la luce che vediamo. Le nebulose a emissione contengono gas ionizzato (per la maggior parte idrogeno ionizzato) che produce linee spettrali di emissione. Spesso vengono denominate Regioni H II che deriva dal linguaggio professionale degli astronomi riferendosi all'idrogeno ionizzato. A differenza delle nebulose a emissione, quelle a riflessione non producono propria luce visibile a sufficienza, ma riflettono invece la luce delle stelle nelle vicinanze. La nebulosa oscura è simile alla nebulosa diffusa, ma non è visibile grazie alla propria luce emessa oppure grazie alla luce riflessa. Esse si manifestano come delle nuvole nere di fronte a stelle più distanti o nebulose a emissione. Nonostante queste nebulose sembrino diverse viste nelle varie lunghezze d'onda ottiche, esse brillano tutte se osservate nell'infrarosso. Questa radiazione arriva dalla polvere della nebulosa. Oltre alle nebulose diffuse che non hanno confini ben definiti, esistono alcune nebulose che possono essere descritte come degli oggetti con confini identificabili. Le nebulose planetarie sono nebulose che si formano dal gas espulso dalle stelle a bassa massa quando si trasformano in nane bianche. Queste nebulose sono a emissione con radiazione spettrale simile a quella trovata nelle regioni di formazione stellare. Tecnicamente, esse sono delle regioni H II in quanto la maggior parte dell'idrogeno sarà ionizzato. Tuttavia, le nebulose planetarie sono più dense e più compatte delle nebulose a emissione. I primi astronomi che osservarono questi oggetti pensarono che le nebulose somigliassero ai dischi di pianeti, nonostante non siano per niente relazionati ai pianeti. Da qui l'origine del nome nebulosa planetaria. La nebulosa protoplanetaria è un oggetto astronomico che si presenta durante il breve stadio delle ultime fasi dell'evoluzione stellare, quando la stella generatrice si trova tra il ramo asintotico delle giganti e la fase di nana bianca. Le nebulose protoplanetarie emettono una forte radiazione infrarossa e costituiscono un tipo particolare di nebulosa a riflessione. Si tratta della penultima fase evolutiva ad alta luminosità nel ciclo vitale delle stelle di massa intermedia. Una supernova si forma quando una stella di grande massa raggiunge la fine della sua vita. Al termine della fusione nucleare che avviene nel nucleo, la stella collassa su se stessa. Il gas che sta cadendo può rimbalzare oppure si può surriscaldare espandendosi verso l'esterno, causando l'esplosione della stella. L'espansione del gas forma un Resto di supernova che è un tipo speciale di nebulosa diffusa.
I vari tipi di nebulosa
Ora che sappiamo che cos'è una nebulosa andiamo a viaggiare tra le tipologie di nebulose non-diffuse, che hanno, cioè, confini ben definiti.
Le Nebulose Planetarie
Una nebulosa planetaria è una nebulosa ad emissione costituita da un involucro incandescente di gas ionizzato in espansione, espulso durante la fase asintotica delle giganti di alcuni tipi di stelle nella fase finale della loro vita. Il termine assegnato a questa classe di oggetti, che non è molto appropriato, ebbe origine negli anni 1780 con l'astronomo William Herschel al quale questi oggetti, dopo averli osservati attraverso il suo telescopio, sembrarono dei sistemi planetari in fase di formazione. Gli astronomi adottarono per questi oggetti il nome dato da Herschel, senza modificarlo successivamente, anche se le nebulose planetarie non hanno nulla a che vedere con i pianeti del sistema solare. Le nebulose planetarie spesso contengono stelle, ma non contengono pianeti visibili. Si tratta di un fenomeno relativamente breve, della durata di poche decine di migliaia di anni, rispetto alla tipica durata stellare di diversi miliardi di anni. Si ritiene che il meccanismo di formazione di molte nebulose sia il seguente: al termine della vita della stella, durante la fase di gigante rossa, gli strati esterni della stella vengono espulsi tramite pulsazioni e forti venti stellari. Il nucleo caldo e luminoso emette una radiazione ultravioletta che ionizza gli strati esterni espulsi della stella. Questo involucro di gas nebulare altamente energetico re-irradia l'energia ultravioletta assorbita e appare come una nebulosa planetaria. Le nebulose planetarie svolgono un ruolo cruciale per la evoluzione chimica delle galassie, restituendo materiale al medium interstellare che è stato arricchito di elementi pesanti e di altri prodotti della nucleosintesi, come carbonio, azoto, ossigeno e calcio. In galassie più lontane, le nebulose planetarie potrebbero essere gli unici oggetti a fornire utili informazioni sull'abbondanza chimica. Negli ultimi anni, le immagini del Telescopio Spaziale Hubble hanno rivelato che diverse nebulose planetarie hanno morfologie estremamente complesse e differenziate. Circa un quinto sono più o meno sferiche, ma la maggior parte non sono sfericamente simmetriche. I meccanismi che producono una tale varietà di forme e caratteristiche non sono ancora ben compresi, ma le stelle binarie centrali, i venti stellari e i campi magnetici potrebbero avere un ruolo.
Sotto: un video per comprendere la formazione delle nebulose planetarie.
Le nebulose planetarie sono in genere oggetti deboli, nessuna è visibile a occhio nudo. La prima nebulosa planetaria scoperta fu la Nebulosa Manubrio nella costellazione della Volpetta, osservata da Charles Messier nel 1764, elencata come M27 nel suo catalogo di oggetti nebulosi.[4] Ai primi telescopi a bassa risoluzione, M27 e le nebulose planetarie scoperte successivamente, sembravano pianeti giganti come Urano; infine, William Herschel, scopritore di questo pianeta, coniò per esse il termine 'nebulose planetarie'. Herschel pensò che gli oggetti fossero stelle circondate da materiale che si stava condensando in pianeti, mentre ora si sa che si tratta di stelle morte che avrebbero incenerito eventuali pianeti orbitanti. La natura delle nebulose planetarie rimase sconosciuta fino alle prime osservazioni spettroscopiche, effettuate a metà del XIX secolo. William Huggins fu uno dei primi astronomi a studiare gli spettri ottici degli oggetti astronomici, utilizzando un prisma per disperdere la loro luce. Egli fu il primo, il 29 agosto 1864, ad ottenere lo spettro di una nebulosa planetaria, analizzando NGC 6543. Le sue osservazioni sulle stelle mostrarono che i loro spettri consistevano di un continuum con molte linee scure sovrapposte; inoltre egli scoprì che molti oggetti nebulosi come la Nebulosa di Andromeda (come era conosciuta allora) avevano spettri che erano molto simili a questo; successivamente fu dimostrato che queste nebulose erano galassie. Tuttavia, quando osservò la Nebulosa Occhio di Gatto, trovò uno spettro molto diverso. Piuttosto che di un continuum con righe di assorbimento sovrapposte, la Nebulosa Occhio di Gatto e altri oggetti simili mostravano solo un piccolo numero di linee di emissione.[5] La più brillante di queste era alla lunghezza d'onda di 500,7 nanometri, che non corrispondeva a una linea di alcun elemento conosciuto. In un primo momento si ipotizzò che la linea potesse essere dovuta a un elemento sconosciuto, che fu chiamato nebilium; un'idea simile aveva portato alla scoperta dell'elio attraverso l'analisi dello spettro del Sole nel 1868. Mentre l'elio fu isolato sulla Terra subito dopo la sua scoperta nello spettro del Sole, così non fu per il nebulium. Nei primi anni del XX secolo, Henry Norris Russell propose che la linea a 500,7 nm fosse dovuta a un elemento familiare in condizioni non familiari, piuttosto che essere un nuovo elemento. Negli anni 1920, i fisici dimostrarono che in un gas a densità estremamente bassa, gli elettroni in atomi e ioni possono popolare per tempi relativamente lunghi livelli energetici in stato metastabile eccitato che ad alte densità sarebbero rapidamente diseccitati da collisioni. In ioni di azoto e ossigeno (O2+, O III o O+, e N+) le transizioni degli elettroni da questi livelli metastabili danno origine alla linea di 500,7 nm e ad altre linee. Queste righe spettrali, che possono essere osservate solo in gas a densità molto bassa, si chiamano linee proibite. Le osservazioni spettroscopiche mostrarono così che le nebulose erano fatte di gas estremamente rarefatto. Le stelle centrali delle nebulose planetarie sono molto calde e dense. Dopo aver esaurito la maggior parte del proprio combustibile nucleare, una stella può collassare in una nana bianca, in cui la materia si trova in uno stato degenere. Le nebulose planetarie sono state quindi considerate come la fase finale dell'evoluzione stellare delle stelle di massa media e piccola. Le osservazioni spettroscopiche mostrano che tutte le nebulose planetarie sono in espansione. Questo ha portato all'idea che le nebulose planetarie sono formate dagli strati esterni di una stella scagliati nello spazio alla fine della propria vita. Verso la fine del XX secolo, i progressi tecnologici hanno contribuito a favorire lo studio delle nebulose planetarie. I telescopi spaziali hanno permesso agli astronomi di studiare la luce emessa in lunghezze d'onda differenti da quelle dello spettro visibile non rilevabili da osservatori collocati sulla Terra (perché solo le onde radio e la luce visibile penetrano l'atmosfera terrestre). Studi sulle radiazioni infrarosse e ultraviolette delle nebulose planetarie hanno permesso di determinare in modo più accurato temperature, densità e abbondanze chimiche. La tecnologia CCD ha permesso di misurare con maggior precisione rispetto al passato le linee spettrali più deboli. Il telescopio spaziale Hubble ha mostrato anche che, mentre diverse nebulose sembrano avere strutture semplici e regolari, molte altre rivelano morfologie estremamente complesse. Stelle più massicce di 8 masse solari (M⊙) finiscono la loro vita con una spettacolare esplosione di supernova. Una nebulosa planetaria invece può essere il risultato della morte di stelle di massa compresa fra 0,8 e 8 M⊙. Le stelle passano la maggior parte della loro vita emettendo energia dovuta alle reazioni di fusione nucleare che convertono l'idrogeno in elio nel nucleo della stella. La pressione verso l'esterno esercitata dalla fusione nel nucleo bilancia il collasso verso l'interno dovuto alla gravità della stella stessa. Tale fase è chiamata sequenza principale. Stelle di massa piccola/intermedia esauriscono l'idrogeno nei loro nuclei dopo da decine di milioni a miliardi di anni di permanenza nella sequenza principale. Attualmente il nucleo solare ha una temperatura di circa 15 milioni di K, ma all'esaurimento dell'idrogeno, la compressione del nucleo produrrà un aumento della temperatura fino a circa 100 milioni di K. Quando ciò accade, gli strati esterni della stella si espandono enormemente raffreddandosi in modo considerevole: la stella diventa così una gigante rossa. Quando il nucleo si è sufficientemente contratto da raggiungere una temperatura di 100 milioni di K, i nuclei di elio cominciano a fondersi in carbonio e ossigeno. La ripresa delle reazioni di fusione ferma la contrazione del nucleo. La fusione dei nuclei di elio forma da subito un nucleo inerte di carbonio e ossigeno, circondato da un involucro di elio che fonde e da un altro con idrogeno che fonde. In quest'ultima fase la stella entra nel ramo asintotico delle giganti. Le reazioni di fusione dell'elio sono estremamente sensibili alla temperatura, con velocità di reazione proporzionali a T40 (a temperature relativamente basse). Ciò significa che un semplice aumento del 2% della temperatura fa più che raddoppiare la velocità di reazione. Queste condizioni fanno diventare la stella molto instabile, così che un piccolo aumento di temperatura porta ad un rapido aumento della velocità delle reazioni, con conseguente rilascio di molta energia e aumento ulteriore della temperatura. A causa di ciò lo strato di elio in combustione si espande rapidamente e quindi si raffredda nuovamente, il che riduce la velocità di reazione. Si creano enormi pulsazioni, che alla fine diventano talmente ampie che l'atmosfera stellare viene espulsa nello spazio. I gas espulsi formano una nube di materiale attorno al nucleo ora esposto della stella. Più l'atmosfera si allontana dalla stella, più vengono esposti strati profondi a temperature maggiormente elevate. Quando la superficie esposta raggiunge una temperatura di 30.000 K circa, i fotoni ultravioletti emessi sono sufficienti a ionizzare l'atmosfera espulsa, rendendola incandescente. La nube è così diventata una nebulosa planetaria. Dopo che la stella è passata per il ramo asintotico delle giganti (AGB), la breve fase di nebulosa planetaria ha inizio allorché i gas si allontanano dalla stella centrale ad una velocità di pochi chilometri al secondo. La stella centrale è il residuo del suo progenitore AGB, un nucleo degenere di carbonio-ossigeno, che ha perso gran parte del suo involucro di idrogeno a causa della perdita di massa durante la fase AGB. Quando i gas si espandono, la stella centrale subisce una trasformazione in due fasi. In un primo tempo, mentre continua a contrarsi e si verificano reazioni di fusione dell'idrogeno nel guscio intorno al nucleo, diventa più calda; poi lentamente, una volta che l'idrogeno del guscio si esaurisce attraverso la fusione e la perdita di massa, si raffredda. Nella seconda fase, irradia la sua energia e le reazioni di fusione cessano, in quanto la stella centrale non è abbastanza pesante per generare temperature interne richieste per fondere il carbonio e l'ossigeno. Durante la prima fase la stella centrale mantiene una luminosità costante, mentre, allo stesso tempo, la sua temperatura si innalza fino a raggiungere i 100.000 K circa. Nella seconda fase, si raffredda fino a non riuscire più ad emettere una radiazione ultravioletta sufficiente a ionizzare la nube di gas sempre più distante. La stella diventa una nana bianca, e la nube di gas in espansione diventa a noi invisibile, terminando così la fase di nebulosa planetaria. Per una tipica nebulosa planetaria, passano 10.000 anni circa tra la sua formazione e la fine della sua fase di visibilità. Le nebulose planetarie svolgono un ruolo molto importante nell'evoluzione galattica. All'inizio l'universo era costituito quasi interamente da idrogeno ed elio. Col tempo, le stelle creano elementi più pesanti attraverso la fusione nucleare. I gas delle nebulose planetarie pertanto contengono grandi quantità di carbonio, azoto e ossigeno e, mentre si espandono mischiandosi al mezzo interstellare, lo arricchiscono con questi elementi pesanti, chiamati metalli dagli astronomi. Le successive generazioni di stelle che si vanno a formare avranno quindi un maggior contenuto iniziale di elementi più pesanti. Nonostante gli elementi pesanti costituiscano una componente molto piccola della stella, hanno un marcato effetto sulla sua evoluzione. Stelle che si sono formate molto presto nell'universo e contengono piccole quantità di elementi pesanti sono conosciute come stelle di Popolazione II, mentre le più giovani stelle a più alto contenuto di elementi pesanti sono conosciute come stelle di Popolazione I. Una tipica nebulosa planetaria ha un diametro di circa un anno luce, ed è costituita da gas estremamente rarefatto, generalmente con una densità da 100 a 10.000 particelle per cm³. (In confronto, l'atmosfera della Terra contiene 2,5 x 1019 particelleper cm³.) Le nebulose planetarie più giovani hanno una densità più alta, a volte fino al 106 particelle per cm³. Con l'andare del tempo, l'espansione delle nebulose provoca una diminuzione della loro densità. La massa delle nebulose planetarie varia da 0,1 a 1 masse solari. La radiazione dalla stella centrale riscalda i gas a temperature di circa 10.000 K. La temperatura del gas nelle regioni centrali è solitamente molto superiore a quella nella periferia raggiungendo 16.000-25.000 K. Il volume in prossimità della stella centrale è spesso riempito con un gas molto caldo (coronale) avente una temperatura di circa 1.000.000 K. Questo gas proviene dalla superficie della stella centrale in forma di vento stellare veloce. Le nebulose possono essere descritte come materia delimitata o radiazione delimitata. Nel primo caso, non c'è abbastanza materia nella nebulosa per assorbire tutti i fotoni UV emessi dalla stella, e la nebulosa visibile è completamente ionizzata. Nel secondo caso, non vi sono abbastanza fotoni UV emessi dalla stella centrale per ionizzare tutto il gas circostante, e un fronte di ionizzazione si propaga verso l'esterno nell'involucro circumstellare neutro. Nella nostra galassia si conoscono tuttora circa 3000 nebulose planetarie, su 200 miliardi di stelle. La loro durata di vita molto breve rispetto a quella delle stelle ne spiega il numero esiguo. Si trovano per lo più vicino al piano della Via Lattea, con maggiore concentrazione in prossimità del centro galattico. Solo il 20% delle nebulose planetarie sono sfericamente simmetriche (come ad esempio Abell 39). Esiste una notevole varietà di forme, alcune delle quali molto complesse. Possono essere classificate in: stellari, discoidali, anulari, irregolari, elicoidali, bipolari, quadrupolari, e altro ancora, anche se la maggior parte appartengono a tre sole tipologie: sferica, ellittica e bipolare. Le nebulose dell'ultimo tipo mostrano la più forte concentrazione sul piano galattico e le loro progenitrici sono quindi stelle massicce relativamente giovani. D'altra parte le nebulose sferiche sono probabilmente prodotti da vecchie stelle simili al Sole. La grande varietà di forme è in parte dovuta all'effetto prospettiva: la stessa nebulosa vista sotto punti di vista diversi avrà aspetti diversi. Tuttavia, il motivo della grande varietà di forme fisiche non è pienamente compreso, anche se potrebbe essere causato da interazioni gravitazionali con stelle compagne nel caso le stelle centrali siano stelle doppie. Un'altra possibilità è che i pianeti interrompono il flusso di materiale proveniente dalla stella quando la nebulosa si forma. È stato stabilito che stelle più massicce producono nebulose di forma più irregolare. Nel gennaio 2005, alcuni astronomi hanno annunciato il rilevamento di campi magnetici intorno alle stelle centrali di due nebulose planetarie, ipotizzando che essi possano essere in parte o del tutto responsabili per le loro forme particolari. Nebulose planetarie sono state individuate in quattro ammassi globulari: Messier 15, Messier 22, NGC 6441 e Palomar 6, mentre c'è tuttora un solo caso accertato di nebulosa planetaria scoperta in un ammasso aperto. In parte a causa della loro piccola massa totale, gli ammassi aperti hanno relativamente scarsa coesione gravitazionale. Di conseguenza, essi tendono a disperdersi dopo un tempo relativamente breve, tipicamente 100-600 milioni di anni, a causa di influenze gravitazionali esterne o di altri fattori. In condizioni eccezionali, gli ammassi aperti possono rimanere intatti fino a un miliardo di anni o più. I modelli teorici prevedono che le nebulose planetarie possono formarsi da stelle che nella sequenza principale possiedono una massa comprese tra 0,8 e 8 masse solari: la vita minima di tali stelle è 40 milioni di anni. Anche se si conoscono alcune centinaia di ammassi aperti aventi più di 40 milioni di anni, una serie di ragioni limitano le probabilità di trovare un membro di un ammasso aperto nella fase di nebulosa planetaria. Una di queste è che la fase di nebulosa planetaria per stelle più massicce appartenenti agli ammassi più giovani è dell'ordine di migliaia di anni, un tempo brevissimo su scala astronomica. Un problema di lunga data nello studio di nebulose planetarie è che, nella maggior parte dei casi, le loro distanze sono determinate in modo molto approssimativo. Per le nebulose planetarie più vicine, è possibile determinare la distanza misurando la loro parallasse di espansione. Osservazioni ad alta risoluzione prese a diversi anni di distanza permettono di valutare l'espansione angolare raggiunta dalla nebulosa in direzioni perpendicolari alla linea di vista, mentre osservazioni spettroscopiche dell'effetto Doppler rivelano la velocità di espansione sulla linea di vista. Confrontando l'espansione angolare con la velocità di espansione, si ottiene la distanza della nebulosa. La questione di come una tale vasta gamma di forme nebulari può essere prodotta è un argomento controverso. Si ritiene che le interazioni tra il materiale che si allontana dalla stella a differenti velocità diano luogo alla varietà di forme osservate. Tuttavia, alcuni astronomi ritengono che la presenza di stelle centrali doppie sia responsabile della forma delle nebulose planetarie più complesse. Alcune hanno dimostrato di ospitare forti campi magnetici: le interazioni magnetiche con il gas ionizzato potrebbero avere un ruolo nel modellare alcune nebulose planetarie. Ci sono due metodi per determinare le abbondanze di metalli nelle nebulose, che si basano su due diversi tipi di linee spettrali: linee di ricombinazione e linee eccitate dalle collisioni. Discrepanze di grandi dimensioni sono a volte viste tra i risultati ottenuti dai due metodi. Alcuni astronomi spiegano ciò con la presenza di piccole variazioni di temperatura all'interno delle nebulose planetarie; altri sostengono che le differenze sono troppo grandi per essere spiegate con gli effetti della temperatura, e ipotizzano l'esistenza di nodi freddi contenenti un'esigua quantità di idrogeno per spiegare le osservazioni. Tuttavia, tali nodi non sono ancora stati osservati.
Nebulosa protoplanetaria
Una nebulosa protoplanetaria (da non confondere con il disco protoplanetario), è un oggetto astronomico che si presenta durante il breve stadio delle ultime fasi dell'evoluzione stellare, quando la stella generatrice si trova tra il ramo asintotico delle giganti e la fase di nana bianca. Le nebulose protoplanetarie emettono forte radiazione infrarossa, e costituiscono un tipo particolare di nebulosa a riflessione. Si tratta della penultima fase evolutiva ad alta luminosità nel ciclo vitale delle stelle di massa intermedia (1-8 M☉). Il nome nebulosa protoplanetaria si rivela una scelta sfortunata, in quanto è frequente confondere questo nome con quello del disco protoplanetario; l'origine del nome è dovuta alla modifica del già noto nome nebulosa planetaria, che fu inizialmente scelto dagli astronomi per identificare tutte le nebulose dall'aspetto circolare o anulare che all'osservazione tramite telescopio mostravano un aspetto simile a quello dei pianeti gassosi Urano e Nettuno. Per evitare ulteriori confusioni, alcuni astronomi nel 2005 hanno suggerito di nominare queste nebulose nebulose preplanetarie. Durante la fase asintotica di gigante, quando la perdita di massa riduce la massa dell'involucro di idrogeno a 10-2 M☉, con una massa del centro di 0,60 M☉, la stella inizia ad evolvere verso la parte blu del diagramma di Hertzsprung-Russell. Quando l'idrogeno è stato ridotto infine intorno a 10-3 M☉, l'involucro sarà così dissolto che si crede non sia possibile che continui a perdere massa su grande scala. A tal punto, la temperatura della stella sarà intorno ai 5.000 K: questa fase è definita come la fine dello stadio asintotico di gigante e l'inizio della fase di nebulosa protoplanetaria. Durante la fase di nebulosa protoplanetaria, la temperatura effettiva della stella centrale continuerà a salire, come risultato della perdita di massa dell'involucro e come conseguenza della fusione nucleare dell'idrogeno. Durante questa fase, la stella centrale è troppo fredda per ionizzare l'involucro a lenta rotazione che circonda la stella espulso in precedenza. Tuttavia, sembra che la stella emetta un forte vento stellare che collide con l'involucro stesso, plasmandolo; infine, è la stessa nebulosa protoplanetaria che darà la forma alla futura nebulosa planetaria. Durante la fase del distacco dal precedente stato di gigante, la forma di quest'involucro cambia da una struttura simmetrica approssimativamente sferica ad una a simmetria assiale; la forma risultante sarà quindi una nebulosa bipolare, con dei getti di gas simili a quelli visibili sugli oggetti HH.
Glossario: oggetti HH
Gli oggetti di Herbig-Haro (detti anche oggetti di HH; sigla di catalogo HH) sono una categoria di nebulose a emissione debolmente luminose visibili all'interno o ai margini delle regioni di formazione stellare. Si formano quando del gas ionizzato (spesso allo stato di plasma), espulso sotto forma di getti in corrispondenza dei poli di stelle in fase di formazione, collide con nubi più dense di gas e polveri a velocità supersoniche. Le onde d'urto generate dalla collisione eccitano gli atomi del gas, che si illumina per il fenomeno della triboluminescenza.
La fase di protonebulosa planetaria continua finché la stella centrale non raggiunge la temperatura di circa 30.000 k, e la sua temperatura sia così sufficiente da ionizzare la nebulosa che la circonda (i gas espulsi), diventando così un tipo di nebulosa ad emissione noto come nebulosa planetaria. Questa transizione deve aver luogo in meno di 10.000 anni, altrimenti la densità della nube ricadrà al di sotto della fascia adatta alla formazione delle nebulose planetarie.
Resti di Supernova
In astronomia, un resto di supernova (SNR dalla dizione inglese Supernova remnant) è il materiale lasciato dalla gigantesca esplosione di una supernova. Questo può accadere in due modi: quando una stella molto massiccia termina il suo combustibile nucleare, e collassa su se stessa sotto l'azione della propria forza di gravità, oppure quando una nana bianca accumula abbastanza materiale da una stella compagna da raggiungere la massa critica e fa la stessa fine. In entrambi i casi, l'esplosione risultante espelle con molta forza la maggior parte o forse tutta la materia che componeva la stella. Nel caso dell'esplosione di una stella massiccia, il nucleo della stella può collassare così rapidamente da formare un oggetto estremamente compatto formato da materia degenere. Si tratta generalmente di una stella di neutroni o a volte di un buco nero, a cui ci si riferisce come resto di supernova compatto. In tutte le esplosioni, gli strati esterni della stella sono espulsi all'esterno ad una velocità di migliaia di chilometri al secondo, dando luogo a una nube di gas e polveri in espansione. Questa nube, che raccoglie anche il mezzo interstellare precedentemente esistente nella zona di espansione, e che è spesso attraversata da onde d'urto generate dall'esplosione stessa o dall'interazione tra la nube e il mezzo interstellare, è detta resto di supernova diffuso. Il resto di supernova compatto, quando esiste, dovrebbe trovarsi al centro di quello diffuso, ed in alcuni casi è così (come nel caso della Nebulosa del Granchio e della Nebulosa delle Vele). Spesso però l'esplosione è asimmetrica: il grosso del gas va da una parte e l'oggetto compatto viene "sparato" nell'altra direzione con velocità che possono superare i 200 km/s. In tal caso l'oggetto compatto esce rapidamente (poche centinaia o migliaia di anni) dal resto di supernova diffuso e diventa difficile mettere in relazione i due oggetti. Un resto di supernova diffuso è un oggetto effimero: in poche migliaia di anni si dissolve nel mezzo interstellare, che arricchisce degli elementi pesanti prodotti nel corso della vita della stella, e scompare. Nonostante ciò, i resti osservabili sono numerosi, perché le supernovae esplodono al ritmo di una ogni qualche decina d'anni nella nostra galassia. Gli oggetti compatti, invece, sono immortali o quasi. Il resto di supernova più famoso e più osservato con telescopi professionali, anche se piuttosto difficile da osservare a causa della sua grande lontananza, è quello della Supernova 1987a, la cui esplosione è stata visibile dalla Terra il 23 febbraio 1987, nella Grande Nube di Magellano, alla distanza di 168 000 anni luce. Molto più vicina è la Nebulosa del Granchio, resto di un'esplosione rilevata nell'anno 1054 e registrata dagli astronomi cinesi, con al centro una giovane stella di neutroni.
Nebulose uniche
Adesso che abbiamo capito il concetto generale di nebulosa e che conosciamo tutte le tipologie di questi capolavori di arte celeste possiamo andare a viaggiare tra alcune delle nebulose più interessanti dal punto di vista scientifico: approfondiremo le caratteristiche di oggetti veramente unici. Seguiteci su Eagle sera per saperne di più
La Nebulosa aquila
La Nebulosa Aquila (nota anche come M 16 o NGC 6611) è una grande regione H II visibile nella costellazione della Coda del Serpente; è formata da un giovane ammasso aperto di stelle associato ad una nebulosa a emissione composta da idrogeno ionizzato, catalogata come IC 4703. La sua distanza è sempre stata relativamente incerta, ma si tende ad accettare un valore di circa 7000 anni luce dalla Terra, ponendola così nella zona media del Braccio del Sagittario; contiene alcune formazioni estremamente conosciute, come i Pilastri della Creazione, le lunghe colonne di gas oscuro originate dall'azione del vento stellare delle componenti dell'ammasso centrale e che sono responsabili anche del nome proprio della nebulosa stessa, a causa della loro forma. In esse sono presenti alcuni oggetti stellari giovani, che testimoniano che i processi di formazione stellare sono tuttora in atto, anche se non è chiaro se questi siano favoriti od osteggiati dall'azione del vento stellare delle stelle vicine, né è chiaro se il vento effettivamente influisca in qualche maniera su questi fenomeni. L'ammasso è composto da un gran numero di supergiganti blu molto calde e brillanti; la loro età tipica è di appena 2-3 milioni di anni, cioè meno di un millesimo dell'età del nostro Sole; la stella più brillante dell'ammasso è di magnitudine 8,24, ben visibile anche con un binocolo. La nebulosa è nota fin dal Settecento ed è uno degli oggetti più noti fra quelli del Catalogo di Messier; si rivela con facilità nelle fotografie ed è dunque un buon soggetto per gli appassionati dell'astrofotografia amatoriale. La nebulosa Aquila, di per sé piuttosto brillante, può essere individuata con facilità partendo dalla stella γ Scuti e spostandosi circa 3° a WSW; sebbene sia invisibile ad occhio nudo, un binocolo 10x50 è più che sufficiente per poterla individuare come una macchia chiara allungata e circondante un piccolissimo ammasso di stelle, il quale però può essere risolto solo con grande difficoltà. Con un telescopio da 120-150mm di apertura, l'ammasso domina con la sua luce la nebulosità, che si mostra sfuggente; l'ammasso appare invece ben risolto e conta circa una quarantina di stelle. Molti dettagli sulla nube possono essere osservati con aperture a partire dai 200mm con le quali l'ammasso appare luminoso ed esteso, con diverse decine di stelle brillanti sparse su tutta la zona nebulosa. La Nebulosa Aquila può essere osservata con discreta facilità da gran parte delle aree popolate della Terra, grazie al fatto che è situata a una declinazione non eccessivamente australe: in alcune aree del Nord Europa e del Canada, nei pressi del circolo polare artico, la sua visibilità è comunque molto difficile, mentre nell'Europa centrale appare relativamente bassa; alle latitudini boreali medie (bacino del Mediterraneo) si mostra discretamente alta sull'orizzonte e si osserva dunque con facilità, mentre dall'emisfero sud la nebulosa è visibile ben alta nelle notti dell'inverno australe e nella sua fascia tropicale può vedersi perfettamente allo zenit. Il periodo migliore per la sua osservazione nel cielo serale è quello compreso fra giugno e ottobre. L'oggetto fu scoperto nel 1746 da Philippe Loys de Chéseaux, il quale con il suo telescopio ottico sembra avesse individuato solo l'ammasso centrale: infatti egli cita un ammasso di stelle, posizionato fra le costellazioni del Serpente, del Sagittario e di Antinoo. Interessante notare che quest'ultima costellazione, oggi soppressa, occupava la parte meridionale della costellazione dell'Aquila. Charles Messier riosservò l'ammasso alcuni anni più tardi, il 3 giugno del 1764: lo descrisse come un oggetto nebuloso risolvibile nella zona centrale, mentre le aree esterne restano nebulose; egli di fatto aveva individuato per la prima volta la nebulosità associata all'ammasso, la Nebulosa Aquila. William Herschel non lasciò curiosamente alcuna descrizione, mentre suo figlio John si riferì ad essa come una nube con un ammasso formato da un centinaio di stelle. L'ammiraglio William Henry Smyth riosservò la regione e la descrisse come un bell'oggetto; riferì inoltre che diverse stelle dell'ammasso sono disposte in coppie e indica che occorrono telescopi di potenza moderata per la sua osservazione migliore. Camille Flammarion, un astronomo francese, fu in grado di osservare l'ammasso anche con un piccolo strumento, riuscendo a distinguere pure la nebulosità. Nell'agosto del 1875 Isaac Roberts scattò la prima astrofotografia dell'oggetto, attraverso un telescopio da 50 cm di diametro presso il suo osservatorio privato: in essa è ben evidente la nebulosità che circonda l'ammasso specialmente nel lato sudorientale. L'attuale posizione della Nebulosa Aquila si trova, come si è detto, nell'emisfero celeste australe. Tuttavia è noto che, a causa del fenomeno conosciuto come precessione degli equinozi, le coordinate celesti di stelle e costellazioni possono variare sensibilmente, a seconda della loro distanza dal polo nord e sud dell'eclittica. L'ascensione retta attuale della nebulosa corrisponde a 18h 19m[1], ossia relativamente prossima alle 18h di ascensione retta, che corrispondono, per la gran parte degli oggetti celesti, alla declinazione più meridionale che un oggetto possa raggiungere (si noti come l'intersezione dell'eclittica con le 18h di ascensione retta corrispondano al solstizio del 22 dicembre); nel caso della Nebulosa Aquila, i 14° di declinazione sud. Nell'epoca precessionale opposta alla nostra (avvenuta circa 12.000 anni fa), la Nebulosa Aquila aveva un'ascensione retta opposta a quella attuale, ossia prossima alle 6h; in quel punto, gli oggetti celesti raggiungono, tranne nelle aree più prossime al polo dell'eclittica, il punto più settentrionale. Aggiungendo agli attuali -14° un valore di 47° (pari al doppio dell'angolo di inclinazione dell'asse terrestre), si ottiene un valore di +33°, ossia una declinazione piuttosto boreale, che fa sì che la Nebulosa Aquila possa essere osservata allo zenit già lungo le coste del Mediterraneo meridionale; ne consegue che in tutta l'Europa settentrionale fino ad una latitudine di 57°N la nebulosa si presenti circumpolare. Circa 400 anni fa, la nebulosa ha superato le 18h di ascensione retta; da allora ha incominciato a salire a latitudini sempre più boreali. La causa principale della ionizzazione dei gas della nebulosa, e quindi della sua luminosità, sono le grandi stelle massicce dell'ammasso aperto NGC 6611, che si trova al suo interno; le stesse hanno anche modellato col loro vento stellare le nubi circostanti, causando delle lunghe strutture a chioma qualora il vento incontrasse delle regioni nebulose ultradense: è questo il caso ad esempio dei famosi Pilastri della Creazione o Proboscidi d'Elefante, che hanno conferito il nome "Aquila" alla nebulosa e che sono state rese famose dalle immagini del Telescopio Hubble. Sebbene non siano così dense come originariamente creduto, queste strutture mostrano delle evidenze di protrusioni, denominate EGGs (acronimo di Evaporating Gaseous Globules, globuli gassosi in evaporazione), alcune delle quali sarebbero associate a degli oggetti stellari giovani, un segno questo che i fenomeni di formazione stellare sono ancora in atto. L'ammasso centrale contiene stelle disperse su una regione di circa 14', con un'elevata concentrazione nelle regioni fino a 4' dal centro geometrico; molte di queste sono ancora in fase di pre-sequenza principale, mentre le componenti più brillanti sono delle supergiganti blu. La massa delle componenti varia fra 2 e 85 M☉, mentre l'età dell'ammasso è stata stimata di circa 2-3 milioni di anni, le sue dimensioni sono di circa 70x55 anni luce. Grazie ai rilevamenti condotti dall'Osservatorio Chandra ai raggi X è disponibile una mappatura completa della regione ai raggi X e nella radiazione infrarossa. Una parte degli studi è stata condotta per verificare se realmente ci fosse all'interno della nebulosa una ridotta quantità di stelle giovani con un disco circumstellare, causata dall'azione distruttiva e violenta del vento stellare delle stelle supergiganti dell'ammasso; tuttavia, questo metodo esclude parte di questi oggetti per un suo limite intrinseco. Gran parte delle sorgenti a raggi X si trovano immerse nei gas dei Pilastri della Creazione e coincidono con degli oggetti stellari giovani moderatamente arrossati dalle nubi oscure, e quindi emettenti radiazione infrarossa; nella nube sono state scoperte solo due forti sorgenti di raggi X e coincidono con delle protostelle situate nei pressi dei Pilastri. Degli undici globuli in espansione osservabili anche all'infrarosso, sette possiedono una massa substellare; inoltre quattro di questi emettono una radiazione X talmente bassa che non può essere accostata a quella emessa normalmente da una giovane stella T Tauri: è pertanto possibile che si tratti di oggetti estremamente giovani che non sono ancora diventati attivi. Le stime sulla distanza dell'ammasso associato alla nebulosa, e quindi della nebulosa stessa, sono rese complicate dal fatto che l'estinzione in direzione delle stelle dell'ammasso non segue i normali processi di estinzione riscontrati comunemente nella nostra Galassia: infatti l'estinzione non solo si riscontra nella banda del visibile, ma al livello di mezzo interstellare sembra essere particolarmente elevata, cosa che suggerisce la presenza lungo la linea di vista di grani di polvere più grandi del normale, i quali conterrebbero una maggiore quantità di silicati e grafite rispetto al tasso normale riscontrato nella polvere interstellare. Il tasso di estinzione è di 3,5-4,8, con un valore medio assunto di 3,75. Per tutte queste ragioni, le determinazioni di distanza sono in gran parte discordi fra loro e offrono un nutrito paniere di stime: nel corso degli anni sessanta si sono accettati valori compresi fra i 3200 parsec (10400 anni luce) e i 2200 parsec (7200 anni luce); nel corso degli anni questo valore è andato via via riducendosi e negli anni duemila le stime più precise indicano che la Nebulosa Aquila si troverebbe a una distanza compresa fra i 1800 parsec (5900 anni luce) e i 1750 parsec (5700 anni luce). Inoltre, mentre le prime misure venivano condotte tramite lo studio della cinematica, si è col tempo adottato il sistema della fotometria e, con l'avvento di strumenti di misurazione sempre più precisi, persino la parallasse spettroscopica. Prima di iniziare a comprendere le dinamiche della popolazione stellare associata e in relazione alla nube, gli studi si sono rivolti alla determinazione della struttura fisica della nebulosa, per conoscerne le dinamiche e le proprietà fisiche in generale. Alle onde radio sono state così ottenute diverse mappe, come pure nelle linee di emissione e di assorbimento dell'OH e dell'idrogeno neutro (H I). I Pilastri sono tre strutture molto dense di gas e polveri situate nel bordo sudorientale della nebulosa; sono state create dall'azione del vento stellare delle stelle giganti dell'ammasso aperto centrale. La loro catalogazione segue la numerazione romana crescente, così le singole strutture sono chiamate Colonna I, Colonna II e Colonna III, procedendo da nordest a sudovest. La morfologia e la struttura ionizzata è ben conosciuta grazie all'avvento dei telescopi spaziali: la radiazione ionizzante proveniente dalle stelle dell'ammasso comprime i gas delle nubi molecolare facendone aumentare la pressione in superficie, mentre si genera un flusso fotoevaporante di materiale ionizzato dalla parte opposta alla sorgente della fonte del vento stellare; questo fenomeno è così il responsabile della struttura a "pilastro" delle nubi. La materia a densità inferiore è la prima ad essere spazzata via, mentre il nucleo più denso, ulteriormente compresso a causa del fronte dell'onda d'urto, sopravvive, resistendo alla forza. Tuttavia, le immagini riprese al vicino infrarosso mostrano che le prime due colonne possiedono una struttura relativamente poco densa, concentrata da dei nuclei molto più densi che la difendono dall'azione disgregatrice del vento.[21] A sudest dei Pilastri si trova un'ulteriore struttura nebulosa molecolare, catalogata come Colonna IV, situata nei pressi di un noto oggetto di Herbig-Haro, HH 216. Combinazioni di immagini a raggi X dell'Osservatorio Chandra e delle immagini del Telescopio Hubble hanno mostrato che le sorgenti di raggi X osservate nella nebulosa e provenienti da stelle giovani non coincidono con i Pilastri. Questo suggerisce che la formazione stellare può aver avuto un picco di intensità circa un milione di anni fa e le sue protostelle non si sono riscaldate a sufficienza da emettere raggi X. All'inizio del 2007 gli scienziati utilizzando il Telescopio spaziale Spitzer hanno scoperto l'evidenza che i Pilastri sono stati probabilmente distrutti da una vicina esplosione di supernova avvenuta circa 6000 anni fa, ma che la luce che mostrerà la nuova forma della nebulosa non raggiungerà la Terra ancora per un altro millennio. La massa totale delle aree dense dei tre Pilastri è stimata sulle 200 M☉. Gli Evaporating Gaseous Globules (EGGs), ossia le parti più dense delle colonne, conterrebbero secondo alcuni studi dei giovani oggetti stellari appena formati: si tratterebbe dunque di regioni in cui ha luogo la formazione stellare: i nuclei avrebbero infatti una densità e una temperatura simile a quella comune nei siti di formazione di protostelle; questi indizi di fenomeni di formazione in atto tuttavia non forniscono elementi sull'origine della causa scatenante, pertanto non è chiaro se il fronte di ionizzazione del vento stellare delle giganti giochi un ruolo determinante in questi processi o meno. Nei pressi delle Colonne sono note otto sorgenti nel vicino infrarosso, di cui quattro mostrano dei colori intensi e un'emissione proveniente dalla materia circumstellare, ulteriore indizio della presenza di stelle neonate; degli oltre settanta globuli gassosi in espansione noti, solo un 15% circa sembra essere associato a stelle giovani di piccola massa, mentre sette sono associati a masse substellari e quattro a masse comprese fra 0,35 e 1 M☉. In direzione nordest rispetto ai Pilastri della Creazione si trova un'altra colonna di materia molto allungata, nota e catalogata come Colonna V e soprannominata "la Guglia" (The Spire). Nella parte terminale di questa struttura è stato identificato un bozzolo ionizzato ad alta velocità, che potrebbe coincidere con un oggetto HH; sono note in questa regione anche delle componenti multiple di emissioni maser ad acqua, come pure una sorgente catalogata come G017.0335+00.7479, individuata circa 5 secondi d'arco a sud di una delle componenti maser, più un possibile oggetto stellare giovane molto brillante, catalogato come J181925.4−134535. Nel 2007 sono state anche individuate le controparti nel medio infrarosso delle emissioni maser, grazie all'ausilio del Telescopio Spaziale Spitzer. Uno degli indizi più evidenti della presenza di fenomeni di formazione stellare nelle nebulose è la presenza degli oggetti di Herbig-Haro, ossia delle piccole nubi brillanti a forma di getto potenziate da una stella neonata che si trova al suo interno. Il più notevole di questi oggetti scoperti nella Nebulosa Aquila è HH 216; si trova nei pressi della Colonna IV e fu inizialmente catalogato come M16-HH1. Nel 2004 è stato scoperto, tramite lo studio delle linee di emissione ottiche, del CO e delle dinamiche dei gas, un bow shock opposto all'oggetto precedente, il quale possiede un blueshift di -150 km/s−1, esattamente contrario a HH 216, che invece mostra un redshift di pari entità; fra i due oggetti si estende un addensamento di piccole nubi visibili in luce ottica e nell'infrarosso, più una nube visibile nel vicino infrarosso posizionata esattamente a metà via fra i due oggetti e un maser ad acqua. Nella regione centrale è stata identificata pure una debole emissione di raggi X, probabilmente causata dal riscaldamento della materia compresa fra il getto visibile e il mezzo circumstellare. Come già visto, le parti terminali delle Colonne I e II contengono al loro interno degli oggetti stellari giovani, identificati per la prima volta tramite una mappatura ai raggi infrarossi. Fra gli oggetti più brillanti si trova YSO M16 ES−1, una fonte molto arrossata e piuttosto luminosa situata nella Colonna I; al suo interno si troverebbe, secondo alcuni studi, una stella di pre-sequenza principale o un piccolo gruppo di esse, o anche una singola protostella nello stadio più iniziale della sua evoluzione. Dagli estremi nord e sud della nube si irradia una forte emissione polarizzata, originata dalle espulsioni a getto dell'oggetto centrale, mentre fra i due lobi da cui fuoriescono le emissioni, l'intensità di polarizzazione è molto bassa, segno questo che l'oggetto centrale potrebbe essere circondato da una struttura a disco. Sulla punta della Colonna II si trova YSO M16 ES−2, talvolta chiamato YSO2 in alcune pubblicazioni specifiche; meno luminosa della precedente e meno oscurata, possiede una massa compresa fra 2 e 5 M☉. Studi condotti all'infrarosso mostrano che si tratterebbe di un oggetto più evoluto di ES-1, nonché privo di emissione maser, dal momento che il maser osservato nella Colonna II non è in correlazione con quest'oggetto; la struttura interna sarebbe invece simile, con una struttura a disco appiattito avvolta attorno all'oggetto centrale. Le sue emissioni di raggi X sono estremamente deboli. Sulla Colonna V sono note due strutture associate a stelle giovani; la prima è P5A, situata sulla punta della Colonna ed è stata in parte risolta dal Telescopio Spaziale Spitzer: è formata da due componenti che emettono radiazione infrarossa, corrispondenti a due delle tre sorgenti maser osservate in questa regione. P5B si trova invece alla base della Colonna. Ad ovest dei Pilastri della Creazione si trova invece la sorgente infrarossa più luminosa della nebulosa, catalogata come IRAS 18152−1346, anch'essa associata ad un'emissione maser; avrebbe una massa di circa 8 M☉ e una luminosità pari a circa 1000 L☉. Le regioni H II per definizione sono sempre circondate da ammassi e associazioni di stelle giovani: infatti, poiché la formazione stellare avviene al loro interno, le stelle più giovani, prima di disperdersi, appaiono raggruppate attorno all'area dove si sono formate. L'ammasso che domina la regione della Nebulosa Aquila è noto come NGC 6611. NGC 6611 è un ammasso situato al centro della nebulosa e formato da componenti stellari particolarmente brillanti: contiene infatti alcune decine di stelle di sequenza principale di classe spettrale O e B estremamente calde (supergiganti blu), di età stimata sugli appena 1,8 milioni di anni, più un numero considerevole di stelle di massa inferiore, circa 380 membri fino ad una massa pari a 2 M☉. La principale sorgente della radiazione ionizzante i gas della nebulosa, nonché la stella più massiccia dell'ammasso è HD 168076, una supergigante di classe O3-O5V con una massa pari a 75-80 M☉; le altre stelle possiedono una massa molto inferiore, sebbene siano comunque delle stelle giganti, e la loro radiazione totale è pari a quella prodotta dalla singola stella HD 168076. Molte di queste stelle massicce sono doppie e la velocità radiale dell'ammasso cui appartengono è in sintonia con quella del gas ionizzato della nebulosa; le proprietà delle stelle doppie osservate sembrano in accordo con il modello del meccanismo di formazione per accrezione, piuttosto che con quello di unione. La funzione di massa iniziale del nucleo dell'ammasso per le stelle di massa inferiore alle 5 M☉ è di circa 0,7±0,1 pc, mentre nell'alone si aggira sui 6,5±0,5 pc, con un'escursione di -1,45 per la funzione totale; la variazione spaziale di questa escursione potrebbe essere una conseguenza del fenomeno della segregazione di massa osservata nell'ammasso stesso. Considerando solo i membri conosciuti con massa superiore alle 5 M☉, il limite inferiore della massa totale è pari a (1,6±0,3)×103 M☉; considerando che le stelle comprese fra 6 e 12 M☉ costituiscono il 5,5% della massa totale della popolazione di stelle comprese fra 0,1 e 100 M☉, si è potuto stimare una massa totale dell'ammasso pari a circa 25×103 M☉, con una densità di 28,5 M☉ per parsec cubo. L'età media delle componenti dell'ammasso è di 2-3 milioni di anni, sebbene le componenti potrebbero mostrare un'escursione di età maggiore, variabile fra 1 e 6 milioni di anni; secondo altri l'età sarebbe inferiore, attorno ad un milione di anni o anche meno. Le ricerche di componenti stellari nelle regioni H II vertono anche sull'individuazione di stelle tramite le loro emissioni Hα, come le stelle T Tauri e le stelle Ae/Be di Herbig; secondo gli studiosi questo genere di stelle possiedono delle forti emissioni che si generano dall'interazione delle stelle stesse con il loro disco circumstellare, mentre le emissioni H deboli sono opera dell'attività cromosferica delle stelle giovani non più circondate dal disco. Nelle regioni H II particolarmente brillanti come la Nebulosa Aquila o la Nebulosa della Carena, individuare le emissioni provenienti da questo tipo di stelle può risultare difficoltoso, a causa delle forti radiazioni nella banda dell'idrogeno provenienti dai gas stessi della nebulosa: per questa ragione è stato individuato nella regione dell'ammasso soltanto un esiguo numero di stelle Ae/Be di Herbig, appena sei, di cui quattro sono state confermate. Estendendo il campo di ricerca ad altre regioni della nebulosa, compresi i Pilastri della Creazione, il numero delle sorgenti è salito a 82, in gran parte candidate stelle Ae/Be di Herbig, distribuite lungo tutta la regione osservata senza traccia di concentrazione. Tramite l'ausilio del Telescopio Spaziale Hubble si è potuto localizzare stelle di piccola massa come le nane brune all'interno della nebulosa, fino a una massa di 0,2 M☉, più un cospicuo numero di stelle di pre-sequenza principale di massa appena maggiore, fino a individuare diverse centinaia di candidate membri. Secondo questi studi, la funzione di massa iniziale nelle regioni centrali dell'ammasso NGC 6611 sembra appiattirsi fra 0,3 e 1 M☉, con un picco fra 0,4 e 0,5 M☉; infine, la funzione ricade nell'area delle nane brune. La Nebulosa Aquila, trovandosi a una distanza di circa 5900 anni luce da noi, viene a trovarsi su un braccio di spirale galattico più interno al nostro Braccio di Orione, il Braccio del Sagittario, su cui giacciono anche altri oggetti molto brillanti come molti degli ammassi aperti visibili fra le costellazioni dello Scorpione e del Centauro, fino alla Nebulosa della Carena. Uno studio del 2008 afferma comunque che questo braccio sarebbe solo una grande condensazione di gas e polveri da cui sono nate diverse stelle giovani. La linea di vista dalla Terra alla nebulosa è sì disturbata dalla presenza di polveri interstellari, anche a causa della lunga distanza, ma appare comunque meno oscurata rispetto ad altre zone adiacenti: infatti la nebulosa è visibile sul bordo della cosiddetta Fenditura dell'Aquila (il cui nome deriva dall'omonima costellazione e non dalla nebulosa), una lunga scia di nebulose oscure appartenenti al nostro braccio di spirale che schermano completamente la luce proveniente dalle stelle della fascia settentrionale del Braccio del Sagittario. La Nebulosa Aquila e la Nebulosa Omega si presentano in cielo molto vicine, separate da appena 2,5°; studiando le rispettive distanze emerge che esse si trovano vicine anche fisicamente, trovandosi a poche centinaia di anni luce l'una dall'altra. Basandosi sulle mappe delle emissioni al 12CO si può notare che le due nebulose sono effettivamente connesse da una debole fascia nebulosa, visibile anche nelle immagini riprese a lunga posa e sensibili anche al vicino infrarosso; ciò indicherebbe che le due nubi, alle quali se ne aggiunge una terza catalogata come Regione III a sudovest della Omega, sarebbero parte di un vasto complesso nebuloso molecolare di cui esse rappresentano le aree più dense in cui ha iniziato ad avere luogo la formazione stellare. A queste nubi si aggiungerebbe pure il complesso di Sh2-54, cui è connesso l'ammasso aperto NGC 6604, la cui relazione con la Nebulosa Aquila era già nota anni prima.[48] Secondo gli scienziati, è anche possibile definire un'evoluzione su scala temporale della nube molecolare: la prima regione dove la formazione stellare ha avuto luogo è quella settentrionale, coincidente con Sh2-54, che ha dato origine ad alcune brillanti associazioni OB circa 4 milioni di anni fa; in seguito i fenomeni di formazione hanno interessato la regione della Nebulosa Aquila, 2-3 milioni di anni fa, e solo recentemente (1 milione di anni fa) la Nebulosa Omega. Le cause dell'estensione dei fenomeni di formazione possono essere state diverse: potrebbe infatti essere stata causata da un grande effetto domino in cui le nuove stelle col loro vento stellare hanno compresso i gas delle regioni adiacenti facendoli collassare su se stessi, oppure la compressione potrebbe essere stata causata dall'esplosione di più supernovae originate dalle stelle più massicce derivate dalla formazione. Un'altra possibilità potrebbe essere invece che la compressione dei gas sia avvenuta man mano che il complesso nebuloso entrava nelle regioni più dense del braccio di spirale su cui si trova. La nube molecolare gigante possiede una forma a superbolla e molte delle sue stelle giovani associate vi si trovano all'interno; la superbolla tuttavia sembra avere un'età di alcuni milioni di anni superiore a quella della nube stessa, indicando che si tratta di una struttura già esistente prima dell'afflusso della nube. L'interazione con questa superbolla (e non i suoi effetti di espansione) potrebbero essere stati all'origine dei primi fenomeni di formazione stellare nella regione. Secondo alcuni autori questa regione potrebbe essere ancora più estesa, inglobando persino la Nebulosa Laguna, anch'essa nel Braccio del sagittario sebbene si trovi leggermente più vicina a noi, e forse anche la Nebulosa Trifida, anche se questa si trova piuttosto lontana. Un'associazione OB è un'associazione stellare di recente formazione che contiene decine di stelle massicce di classe spettrale O e B, ossia blu e molto calde; si formano assieme nelle nubi molecolari giganti, il cui gas residuo, una volta che le stelle sono formate, viene spazzato via dal forte vento stellare. Entro pochi milioni di anni, gran parte delle stelle più luminose dell'associazione esplodono come supernovae, mentre le stelle più piccole sopravvivono per molto più tempo, avendo una massa inferiore. Si crede che la gran parte delle stelle della nostra Galassia siano in origine appartenute ad associazioni OB. Paradossalmente, si possono conoscere più facilmente le associazioni OB di altre galassie piuttosto che della nostra, a causa della presenza delle nubi oscure che mascherano la gran parte degli oggetti interni alla Via Lattea. Nella regione della Nebulosa Aquila sono note due associazioni OB. La prima è catalogata Ser OB1: essa contiene poco più di una ventina di supergiganti blu di classe spettrale O e B, alcune delle quali sono anche membri di NGC 6611; le loro magnitudini apparenti sono comprese fra la settima e la decima, mentre quelle assolute sono comprese fra -4 e -8. A queste si aggiungerebbero due ipergiganti blu, HD 168607 e HD 168625, due stelle che probabilmente sono anche in interazione fisica. La componente di velocità residua azimutale di gran parte delle sue stelle mostra che esse si muovono in direzione opposta al senso di rotazione galattico, una caratteristica tipica di molte altre associazioni stellari appartenenti al Braccio del Sagittario, come Sgr OB1, Cru OB1 e Cen OB1; ciò è una prova importante che tenderebbe a confermare che i bracci di spirale in generale, e questo in particolare, si formino a seguito dell'azione di onde di densità spiraliformi. La seconda associazione è Ser OB2, molto più brillante e compatta della precedente; essa coincide con l'ammasso aperto NGC 6604, un giovane gruppo di stelle la cui età è stimata sui 4-5 milioni di anni. La sua distanza, sui 1700 parsec (5500 anni luce) lo mette in relazione con la nebulosa Sh-2 54, che fa parte del complesso della Nebulosa Aquila e Omega e dalle cui stelle viene illuminata; questa nebulosa si dispone perpendicolarmente al piano galattico e si estende per circa una trentina di anni luce. L'associazione conta circa un centinaio di stelle giganti di classe O e B che giacciono circa 65 parsec a nord del piano galattico; all'associazione è connessa una stretta formazione a "camino" (dall'inglese "Chimney") di gas caldo ionizzato, un tipo di formazione piuttosto comune nella nostra e in altre galassie (vedi anche il Perseus Chimney), delle dimensioni di circa 200 parsec, che sembra possa giocare un ruolo importante nelle interazioni fra il disco e l'alone galattico, in particolare per quanto riguarda il trasferimento di gas e fotoni. Fra le componenti dell'associazione si trovano diverse stelle ben note in ambito astronomico, come la stella di Wolf-Rayet binaria CV Serpentis, la binaria HD 166734 e la multipla HD 167971. Il forte vento stellare delle sue componenti ha prodotto un fronte di onde d'urto che potrebbero essere responsabili della seconda generazione di stelle originatesi dalla regione, quelle della Nebulosa Aquila, nonché dei processi ancora in atto.
Nebulosa Occhio di Gatto
La Nebulosa Occhio di Gatto (conosciuta anche con i numeri di catalogo NGC 6543 e C 6) è una nebulosa planetaria visibile nella costellazione boreale del Dragone. Scoperta da William Herschel il 15 febbraio 1786, fu la prima nebulosa planetaria il cui spettro venne analizzato, ad opera dall'astronomo amatoriale inglese William Huggins nel 1864. La nebulosa planetaria è stata studiata approfonditamente nel corso degli anni; è relativamente brillante, possiede una magnitudine apparente pari a 9,8 e un'alta luminosità superficiale, sebbene le sue dimensioni apparenti siano piuttosto ridotte. Strutturalmente è una tra le più complesse nebulose attualmente conosciute: le immagini ad alta definizione fornite dal telescopio spaziale Hubble hanno infatti rivelato ampi getti di materia e numerose strutture a forma di arco. Recenti studi hanno portato alla luce alcuni misteri riguardanti l'intricata struttura di questa nebulosa, che potrebbe essere in parte causata dalle emissioni di materia provenienti da una stella binaria situata nella regione centrale. Non ci sono però ancora evidenze empiriche che attestino ciò. Altro mistero tuttora senza spiegazione sono le grandi discrepanze tra le quantità degli elementi chimici ottenute tramite l'utilizzo di diversi sistemi di misurazione. La parte centrale della nebulosa, più piccola e luminosa, ha un diametro di 20 secondi d'arco, mentre l'alone più esterno, formato dalla materia espulsa dalla stella centrale nella sua fase di gigante rossa, si estende per ben 386 secondi d'arco (6,4 minuti d'arco). Le osservazioni mostrano che il corpo principale ha una densità di circa 5.000 particelle per centimetro cubo e una temperatura di quasi 7800 kelvin (K), l'alone esterno presenta densità minore ma una temperatura che sfiora i 15.000 K. La stella centrale è di classe spettrale O, con una temperatura stimata intorno agli 80.000 K e circa 10.000 volte più luminosa del nostro Sole, con un raggio di circa 0,65 volte quello solare. Le analisi spettroscopiche mostrano che la stella sta perdendo velocemente massa a causa di un forte vento stellare, ad un ritmo di 3,2×10−7 masse solari all'anno. La velocità del vento è di circa 1.900 km/s. Calcoli derivanti dai modelli teorici attribuirebbero alla stella centrale una massa solare che secondo i modelli di evoluzione stellare corrisponde ad una massa iniziale 5 volte maggiore. William Herschel, uno dei più famosi astronomi a cavallo fra Settecento e Ottocento, fu il primo a notare questo piccolo oggetto, che chiamò, assieme ad altri oggetti simili, "nebulosa planetaria", poiché la sua forma gli ricordava quella del pianeta Urano, da lui scoperto appena 4 anni prima.[11] L'oggetto fu in seguito riosservato dall'astronomo francese Antoine Darquier de Pellepoix, lo stesso che scoprì la famosa Nebulosa Anello nella Lira. Il 29 agosto 1864, William Huggins utilizzò per la prima volta uno spettroscopio per osservare la nebulosa: in questo modo egli poté confermare che si trattava di una nebulosa, in quanto lo spettro che determinò era caratteristico dei gas luminescenti; fino ad allora infatti si credeva che le nebulose planetarie fossero semplicemente una o più stelle "dai contorni sfumati" e non risolvibili. La prima pubblicazione di immagini di questa nebulosa arrivò nel 1995, quando il Telescopio Spaziale Hubble mostrò al grande pubblico gli innumerevoli dettagli di quest'oggetto, compresa la stella centrale. La nebulosa è osservabile ad una ascensione retta 17h 58m 33,423s e una declinazione +66° 37′ 59,52″, esattamente in direzione del polo nord eclittico, dunque diametralmente opposta in cielo alla Grande Nube di Magellano. Questa alta declinazione le permette di essere facilmente osservabile da tutto l'emisfero boreale, da cui si presenta circumpolare fino al Tropico del Cancro, proprio in quella fascia dove storicamente sono situati i più grandi telescopi. Interessante notare come questa nebulosa non sia mai osservabile allo zenit in un cielo notturno, proprio a causa della sua posizione.[15 Inoltre, questa posizione fa sì che la nebulosa mantenga sempre la stessa declinazione durante tutte le epoche precessionali. La nebulosa, essendo di magnitudine apparente 9,8, e di dimensioni apparenti molto ridotte, diventa visibile solo con un telescopio di media potenza, a partire dai 120-150 mm di apertura. Reperire l'esatta posizione in cielo non presenta grosse difficoltà, trovandosi quasi esattamente 4,5° ad est della stella ζ Draconis, un astro di terza grandezza. In un telescopio amatoriale da 120 mm si presenta come un minuto disco chiaro, privo di particolari. Notevoli dettagli si possono osservare solo con un oculare da 450x e telescopi da 350mm. Le osservazioni di NGC 6543 in lunghezze d'onda infrarosse mostrano la presenza di polvere stellare e gas a bassa temperatura. Si pensa che la polvere si formò nelle ultime fasi della vita della stella progenitrice; questa polvere assorbe luce della stella centrale trasmettendo l'energia in lunghezze d'onda infrarosse. Lo spettro di emissione infrarosso permette di dedurre temperature attorno ai 70 K, rivelando inoltre la presenza di materiale non ionizzato come l'idrogeno molecolare (H2). In molte nebulose planetarie l'emissione molecolare è maggiore a distanze superiori dalla stella, dove il materiale smette di essere ionizzato; nel caso di NGC 6543 l'emissione di idrogeno è più intensa nel limite interno dell'alone esterno. Questo è probabilmente dovuto ad onde d'urto che eccitano l'H2 man mano che colpiscono a diverse velocità l'alone esterno. La Nebulosa Occhio di Gatto è stata estesamente osservata nell'ultravioletto e nel visibile; le osservazioni spettroscopiche in queste lunghezze d'onda permettono di determinare le abbondanti differenze chimiche nell'intricata struttura della nebulosa. L'immagine in falsi colori del Telescopio Spaziale Hubble risalta le regioni di emissione e quelle a bassa concentrazione di ioni. Tre immagini furono prese con filtri che isolavano la luce emessa da ioni di idrogeno a 656,3 nm, azoto ionizzato a 658,4 nm ed ossigeno doppiamente ionizzato a 500,7 nm; in seguito le immagini furono combinate rispettivamente in canali rosso, verde ed azzurro. Il quadro finale rivela due cappe di materiale meno ionizzato nei limiti della nebulosa. L'Osservatorio di raggi X Chandra ha rivelato la presenza di gas estremamente caldo attorno a NGC 6543. Si crede che il gas sia prodotto dalla violenta interazione tra il vento stellare ed il materiale espulso anteriormente. Questa interazione ha vuotato in larga misura l'interno della nebulosa lasciando uno spazio meno denso a forma di bolla. Queste osservazioni hanno rivelato anche una fonte puntuale di intensi raggi X nella posizione della stella. Questa non dovrebbe emettere tanto intensamente un così elevato flusso di raggi X. Una possibilità interessante potrebbe essere che i raggi X siano prodotti da un ipotetico disco di accrescimento attorno al sistema binario. La misurazione della distanza che ci separa da oggetti come le nebulose planetarie è problematica e deriva dal fatto che la maggior parte dei metodi usati per la stima si basano su assunzioni che possono rivelarsi inappropriate in casi come questo; negli ultimi anni tuttavia le osservazioni effettuate tramite il Telescopio Spaziale Hubble hanno permesso di migliorare l'accuratezza di queste stime. Partendo dal presupposto che tutte le nebulose planetarie si espandono, osservare a distanza di alcuni anni con alta risoluzione angolare l'oggetto permette di misurarne la velocità angolare di espansione. Tale espansione è generalmente molto piccola, si parla di pochi millisecondi di arco ogni anno. Le osservazioni effettuate tramite spettroscopio permettono di misurare invece la velocità di espansione basandosi sull'effetto Doppler. Combinando così le misurazioni scaturite da questi due metodi si può giungere ad una corretta stima della distanza. Nel caso di NGC 6543, le misurazioni effettuate dal Telescopio Spaziale Hubble indicano una velocità di espansione angolare di 10 millisecondi d'arco all'anno, mentre le misurazioni tramite spettroscopio forniscono una velocità di 16,4 km/s; combinando questi due risultati si ottiene una distanza di 3.300 anni luce (ossia 31.325.371.000.000.000.000 km), che corrispondono a circa 1.000 parsec. La Nebulosa Occhio di Gatto è strutturalmente molto complessa e i meccanismi che hanno portato a questa complicata morfologia non sono ancora del tutto noti. L'immagine proposta in alto rappresenta la fusione di una foto del telescopio spaziale Hubble e una immagine nei raggi X del Chandra, le zone azzurre costituiscono l'emissione di raggi X che come si vede provengono dalla zona interna ellittica ad alta energia. I diversi colori sono causati dai diversi stati di ionizzazione dei gas ad alta temperatura, che prendono il nome di "stratificazione della ionizzazione" e dipendono dall'energia fotoionizzante della calda stella centrale. La struttura di gas in espansione è costituita da un anello equatoriale e da due lobi polari con caratteristiche condensazioni lineari ai margini; inoltre, all'interno, si osserva un fronte ellittico in rapida espansione che con l'impatto dei gas emessi in precedenza emette raggi X. Oltre a ciò, si è portati a ritenere anche che la stella centrale sia in realtà una stella binaria. L'esistenza di un disco di accrescimento causato dal trasferimento di massa tra le due componenti del sistema può aver generato i getti polari che interagiscono con la materia espulsa precedentemente. Nel tempo la direzione dei getti polari può variare a causa della precessione. Al di fuori della zona più brillante è visibile una serie di cerchi concentrici, che si pensa siano stati generati mentre la stella si trovava ancora nel ramo asintotico delle giganti nel Diagramma Hertzsprung-Russell; questi anelli sono disposti in modo molto regolare, il che suggerisce che il meccanismo responsabile della loro formazione si sia ripetuto nel tempo ad intervalli regolari e con velocità di emissione simili. La velocità di espansione angolare può anche essere utilizzata per stimare l'età della nebulosa: ipotizzando un tasso di espansione costante di 10 millisecondi di arco all'anno e un diametro attuale di 20 secondi di arco la nebulosa potrebbe essersi formata circa 1000 anni fa; se così fosse, la nebulosa sarebbe una delle più giovani finora conosciute. Come la maggior parte degli oggetti astronomici, NGC 6543 è formata soprattutto da idrogeno ed elio con gli elementi più pesanti presenti in minori quantità. L'esatta composizione può essere determinata attraverso analisi spettroscopiche. L'abbondanza degli elementi viene solitamente espressa in relazione all'idrogeno, che è l'elemento principale. Studi diversi generano spesso misurazioni differenti, poiché gli spettroscopi collegati ai telescopi spesso non catturano tutta la luce generata dall'oggetto che si sta studiando oppure perché vengono studiate parti diverse dello stesso oggetto. Ad ogni modo i risultati per NGC 6543 sono largamente accettati e forniscono un'abbondanza, in relazione all'idrogeno, di elio di circa 0,12; carbonio e azoto sono entrambi a 3×10−4, mentre l'abbondanza di ossigeno invece è di 7×10−4. Sono i tipici valori di una nebulosa planetaria con abbondanza di carbonio, azoto e ossigeno molto più ampia dei valori riscontrabili nell'osservazione del nostro Sole, dovuti al processo di nucleosintesi che arricchisce l'atmosfera stellare di elementi pesanti prima che siano espulsi nella formazione della nebulosa planetaria. Le dinamiche di questa nebulosa, come la sua morfologia, presentano diverse particolarità; i due filamenti ellittici incrociati della nebulosa, osservati nella banda dell'idrogeno alfa, sembrano espandersi alla velocità di circa 20 km/s−1 attraverso un mezzo interstellare relativamente quieto. Agli estremi nord e sud della nebulosa vi sono due lobi brillanti a bassa velocità, composti da elementi fortemente ionizzati, mentre tutt'attorno alla nebulosa, nel debole alone, si trovano due "code" la cui velocità è stimata sui 25-30 km/s−1. Il vento stellare della stella centrale, molto intenso, sembra interagire idrodinamicamente con il gas espulso dalla stella stessa durante la fase di gigante rossa, creando così i due lobi lungo l'asse ortogonale della nebulosa, che quindi avrebbe le caratteristiche di una nebulosa bipolare. I modelli suggeriscono che questi due lobi abbiano nello spazio una forma grosso modo ellittica e che siano disposti lungo l'asse che interseca il nucleo, dove si trova la stella centrale. Nonostante la mole di studi effettuati, molte cose riguardo alla Nebulosa Occhio di Gatto sono ancora oggetto di studi e controversie. I cerchi che circondano la nebulosa centrale ad esempio sembrano emessi a distanza di alcune centinaia di anni, una scala temporale difficile da spiegare, dato che generalmente le pulsazioni termiche che di solito genera una nebulosa planetaria avvengono ad intervalli di decine di anni o al massimo un centinaio, mentre le piccole pulsazioni superficiali a distanza di anni o decine di anni. Non si è ancora riusciti a trovare una spiegazione del perché questa nebulosa presenti tempistiche così dilatate. Lo spettro delle nebulose planetarie consiste di linee di emissione sovrapposte al continuum; queste linee di emissione possono essersi formate sia tramite l'eccitazione collisionale degli ioni della nebulosa, sia tramite la ricombinazione degli elettroni con gli ioni. Le linee eccitate dalle collisioni sono di solito molto più forti delle linee di ricombinazione, così sono state usate più di frequente e da più tempo per determinare l'abbondanza degli elementi; tuttavia, recenti studi hanno scoperto che le abbondanze derivate dalle linee di ricombinazione osservate nello spettro della nebulosa sono di circa tre volte più alte di quelle derivanti dalle collisioni. La causa di ciò è ancora da appurare.
Nebulosa di Orione
La Nebulosa di Orione (nota anche come Messier 42 o M 42, NGC 1976) è una delle nebulose diffuse più brillanti del cielo notturno. Chiaramente riconoscibile ad occhio nudo come un oggetto di natura non stellare, è posta a sud del famoso asterismo della Cintura di Orione, al centro della cosiddetta Spada di Orione, nell'omonima costellazione. Posta ad una distanza di circa 1270 al dalla Terra, si estende per circa 24 anni luce ed è la regione di formazione stellare più vicina al Sistema solare. Vecchie pubblicazioni si riferiscono a questa nebulosa col nome di Grande Nebulosa, mentre più anticamente i testi astrologici riportavano lo stesso nome della stella Eta Orionis, Ensis (la spada), che però si trova in un'altra parte della costellazione. Si tratta di uno degli oggetti più fotografati e studiati della volta celeste, ed è sotto costante controllo a causa dei fenomeni celesti che hanno luogo al suo interno; gli astronomi hanno scoperto nelle sue regioni più interne dischi protoplanetari, nane brune e intensi movimenti di gas e polveri. La Nebulosa di Orione contiene al suo interno un ammasso aperto molto giovane, noto come Trapezio. Le osservazioni con i più potenti telescopi (specialmente il Telescopio spaziale Hubble) hanno rivelato molte stelle circondate da anelli di polveri, probabilmente il primo stadio della formazione di un sistema planetario. La nebulosa è stata riconosciuta come tale nel 1610 da un avvocato francese, Nicolas-Claude Fabri de Peiresc (1580-1637), anche se, date le dimensioni e la luminosità, era certamente conosciuta anche in epoche preistoriche. Tolomeo la identificava come una stella della spada di Orione, di magnitudine 3. La Nebulosa di Orione è un oggetto dell'emisfero australe, ma è talmente prossimo all'equatore celeste da risultare visibile a tutti i popoli della Terra. Si presenta circumpolare solo in prossimità del polo sud, mentre appare visibile sopra l'orizzonte anche diversi gradi a nord del circolo polare artico. La nebulosa è ben visibile durante i mesi compresi tra novembre e marzo e può essere facilmente identificata grazie alla celebre sequenza di tre stelle nota come Cintura di Orione: a sud di quest'asterismo si nota un gruppo di stelle disposte in senso nord-sud (la Spada di Orione), la cui "stella" centrale è in realtà proprio la Nebulosa di Orione. Ad occhio nudo ha un aspetto nettamente nebuloso, che continua a mostrarsi tale anche con piccoli binocoli; uno strumento più potente è sufficiente per individuare, al suo interno, un gruppo di stelline azzurre, quattro delle quali sono disposte a formare un trapezio. L'attuale posizione della Nebulosa di Orione fa sì che, come si è detto, sia visibile da tutte le aree popolate della Terra. Tuttavia è noto che, a causa del fenomeno conosciuto come precessione degli equinozi, le coordinate celesti di stelle e costellazioni possono variare sensibilmente, a seconda della loro distanza dal polo nord e sud dell'eclittica. L'ascensione retta attuale della Nebulosa corrisponde a 5h 35m[1], ossia relativamente prossima alle 6h di ascensione retta, che corrispondono, per la gran parte degli oggetti celesti, alla declinazione più settentrionale che un oggetto possa raggiungere (si noti come l'intersezione dell'eclittica con le 6h di ascensione retta corrisponda al solstizio d'estate); nel caso della Nebulosa di Orione, i 5° di declinazione sud. Nell'epoca precessionale opposta alla nostra (avvenuta circa 12 000 anni fa), la Nebulosa di Orione aveva un'ascensione retta opposta a quella attuale, ossia prossima alle 18h; in quel punto, gli oggetti celesti raggiungono, tranne nelle aree più prossime al polo sud dell'eclittica, il punto più meridionale. Sottraendo agli attuali -5° un valore di 47° (pari al doppio dell'angolo di inclinazione dell'asse terrestre), si ottiene un valore di -52°, ossia una declinazione fortemente australe, che fa sì che la Nebulosa di Orione potesse essere osservata solo a sud del 38º parallelo nord (le coste tunisine); ne consegue che in tutta l'Europa, in parte dell'America Settentrionale e dell'Asia del nord la nebulosa restava sempre al di sotto dell'orizzonte. Fra circa 400 anni, la nebulosa raggiungerà le 6h di ascensione retta; dopo di che incomincerà a scendere a latitudini sempre più australi. Secondo un racconto popolare di origine Maya, l'area della costellazione di Orione era parte di un settore celeste noto come Xibalba, l'oltretomba. Al centro includeva una macchia di fuoco ardente, che corrispondeva appunto alla Nebulosa di Orione. Appare dunque evidente che i Maya, senza l'uso di telescopi, notarono che quest'oggetto aveva caratteristiche diverse dalle stelle, la cui luce è scintillante, ma netta. Sebbene la nebulosa sia chiaramente visibile come tale anche senza l'ausilio di strumenti, sembra strano che non ci sia menzione di questa sua caratteristica nebulosità prima del XVII secolo. In particolare, né l'Almagesto di Claudio Tolomeo, né il Libro delle stelle fisse di Al Sufi cita questa nebulosa, nonostante altri oggetti più o meno apparentemente nebulosi e più o meno luminosi siano citati. Curiosamente, neppure Galileo Galilei la cita, nonostante le sue osservazioni condotte con il suo cannocchiale nel 1610 e 1617 proprio in quest'area di cielo. Questi fatti hanno dato luogo a delle speculazioni secondo cui la luminosità della nebulosa sarebbe aumentata notevolmente a seguito dell'aumento di luminosità delle sue stelle interne. La prima menzione della Nebulosa come tale risale solo al 1610, ad opera di Nicolas-Claude Fabri de Peiresc, come risulta dalle sue annotazioni. Johann Baptist Cysat di Lucerna, un astronomo gesuita, fu il primo a pubblicare delle note sulla nebulosa (sebbene con alcune ambiguità), in un libro sulle comete edito nel 1618. Fu scoperta indipendentemente negli anni successivi da alcuni astronomi importanti dell'epoca, come Christiaan Huygens nel 1656 (il quale pubblicò un primo abbozzo nel 1659). Charles Messier notò per la prima volta la nebulosa il 4 marzo del 1769, nella quale vide pure tre delle stelle del Trapezio. In realtà, la prima osservazione di queste tre stelle è ora accreditata a Galileo, che sembra le avesse osservate già nel 1617, mentre, come detto, non riportò nei suoi scritti notizia della nebulosa circostante; probabilmente ciò è dovuto al campo ristretto del suo cannocchiale. Il Messier pubblicò la prima edizione del suo famoso Catalogo nel 1774. La Nebulosa di Orione fu in questa lista identificata col numero 42, da cui deriva la sua sigla ben nota di M42. Con l'introduzione della spettroscopia ad opera di William Huggins, fu appurata, nel 1865, la natura gassosa della nebulosa. Henry Draper scattò la prima astrofoto della Nebulosa di Orione la mattina del 30 settembre 1880, passata poi alla storia come la prima foto del cielo profondo della storia. Nel 1902, Vogel ed Eberhard scoprirono delle differenze di velocità all'interno della nebulosa e dal 1914 gli astronomi hanno utilizzato l'interferometro a Marsiglia per misurare i moti di rotazione e quelli irregolari. Campbell e Moore confermarono questi risultati tramite l'uso di spettrografi, dimostrando la presenza di turbolenze all'interno della nebulosa. Nel 1931, Trumpler notò che le stelle più luminose vicino al Trapezio formano un ammasso, e fu il primo a dare il nome "Ammasso del Trapezio" all'insieme. Basandosi sulla loro magnitudine e sul loro tipo spettrale, ipotizzò una distanza dell'oggetto di circa 1800 anni luce. Questo valore accorciò di tre volte le stime di distanza indicate all'epoca, sebbene fosse comunque ancora troppo elevato rispetto alle valutazioni moderne. Nel 1993, il Telescopio Spaziale Hubble fece la sua prima osservazione della Nebulosa di Orione: da allora, il telescopio ha condotto numerosi studi; le sue immagini sono state utilizzate per creare modelli dettagliati in tre dimensioni della nebulosa. Attorno alle stelle di nuova generazione sono stati osservati dei dischi protoplanetari, mentre venivano studiati gli effetti distruttivi degli alti livelli di ultravioletti originati dalle stelle più massive. Nel 2005 termina la campagna fotografica di immagini ad elevatissimo dettaglio mai prese prima della Nebulosa di Orione, ad opera del Telescopio Spaziale Hubble. Queste immagini sono state riprese durante 104 orbite del telescopio; rivelano oltre 3000 stelle di magnitudine apparente fino alla ventitreesima, incluse minuscole nane brune, delle quali alcune sembra siano doppie. Un anno dopo, gli scienziati del programma spaziale Hubble hanno annunciato la prima scoperta della massa di una coppia di nane brune che si eclissano a vicenda, catalogate come 2MASS J05352184 - 0546085. Le componenti della coppia, situata nella Nebulosa di Orione, hanno una massa di circa 0,054 M☉ e 0,034 M☉ rispettivamente, con un periodo orbitale di 9,8 giorni. Sorprendentemente, la stella più massiva delle due sembra essere anche la meno luminosa. La Nebulosa di Orione fa parte di un vasto complesso di nebulosità noto come Complesso nebuloso molecolare di Orione. Il complesso si estende attraverso l'intera costellazione di Orione, includendo l'Anello di Barnard, la Nebulosa Testa di Cavallo, M43 e la Nebulosa Fiamma. Il forte processo di formazione stellare fa sì che questo sistema nebuloso sia particolarmente visibile nell'infrarosso. La nebulosa è visibile ad occhio nudo anche dalle aree urbane, in cui è forte l'inquinamento luminoso; appare come una "stella" un po' nebulosa al centro della spada di Orione, un asterismo composto da tre stelle disposte in senso nord-sud, visibile poco a sud della Cintura di Orione. Tale caratteristica nebulosità è ben accentuata attraverso binocoli o telescopi amatoriali. La Nebulosa di Orione contiene un giovanissimo ammasso aperto, noto come Trapezio a causa della disposizione delle sue stelle principali; due di queste possono essere risolte nelle loro componenti binarie nelle notti propizie. Il Trapezio potrebbe essere parte del grande Ammasso della Nebulosa di Orione, un'associazione di circa 2000 stelle con un diametro di 20 anni luce. Fino a due milioni di anni fa questo ammasso potrebbe aver ospitato quelle che ora sono note come le stelle fuggitive, ossia AE Aurigae, 53 Arietis e Mu Columbae, le quali si dirigono in direzioni opposte all'ammasso con una velocità superiore ai 100 km/s. Le osservazioni hanno permesso di scorgere sulla nebulosa una tinta di colore verdastro, che si aggiunge alle regioni di marcato colore rosso e blu-violetto. L'alone rosso è ben noto, essendo causato dalla radiazione H-alfa alla lunghezza d'onda di 656,39 nm. Il blu-violetto è dovuto invece alla radiazione riflessa proveniente dalle stelle di classe O, di grande massa e di colore blu. Il verde invece è stato un enigma per gli studiosi fino alla prima metà del XX secolo, poiché le cause delle linee spettrali sul verde non erano conosciute. Tra le varie speculazioni vi fu quella che affermava che le linee verdi sarebbero state causate da un elemento nuovo, a cui fu dato il nome di "nebulium". Con lo studio della fisica atomica fu in seguito determinato che lo spettro verde è causato da un fenomeno noto come "transizione proibita", ossia la transizione a bassa probabilità di un elettrone in un atomo di ossigeno doppiamente ionizzato. Questa radiazione è però impossibile da riprodurre in laboratorio, poiché dipende dall'ambiente peculiare possibile solo nello spazio profondo. L'intera area occupata dalla nebulosa di Orione si estende su una regione di cielo di 10° di diametro, includendo nubi interstellari, associazioni stellari, volumi di gas ionizzato e nebulose a riflessione. La nebulosa possiede una forma grosso modo circolare, la cui massima densità si trova in prossimità del centro; la sua temperatura si aggira mediamente sui 10000 K, ma scende notevolmente lungo i bordi della nebulosa. Diversamente alla distribuzione della sua densità, la nube mostra una variazione di velocità e turbolenza in particolare nelle regioni centrali. I movimenti relativi superano i 10,3 km/s, con variazioni locali fino ai 50 km/s e forse superiori. Gli attuali modelli astronomici della nebulosa mostrano una regione grosso modo centrata sulla stella θ1 Orionis C, nell'ammasso del Trapezio, la stella responsabile della gran parte della radiazione ultravioletta osservata. Questa regione è circondata da un'altra nube ad alta densità, di forma concava e irregolare, ma più neutra, con campi di gas neutro che giacciono all'esterno della concavità. A pochi primi in direzione nord-ovest da questa stella si trova uno dei complessi nebulosi molecolari più notevoli dell'intera Nebulosa; in quest'area, nota come OMC-1, il processo di formazione stellare è notevolmente accelerato, sia per la densità dei banchi di gas e polveri, sia per la radiazione ed il vento stellare di θ1 Orionis C. Gli studiosi hanno dato dei nomi alle varie strutture interne alla Nebulosa di Orione: la fascia scura che si estende da nord intorno alla brillante regione centrale è chiamata Bocca di pesce; le regioni illuminate da entrambi i lati sono chiamate Ali. I nomi di altre strutture sono La spada, La Vela ed altri ancora. La Nebulosa di Orione è un esempio di "fornace" in cui le stelle prendono vita; varie osservazioni hanno infatti rilevato all'interno della nebulosa circa 700 stelle in vari stadi di sviluppo. Recenti osservazioni col Telescopio Spaziale Hubble hanno scoperto un numero così elevato di dischi protoplanetari, che al giorno d'oggi la gran parte di quelli conosciuti sono stati osservati entro questa nebulosa. Il telescopio Hubble ha infatti rilevato più di 150 dischi protoplanetari, che sono considerati come lo stadio primario dell'evoluzione dei sistemi planetari. Questi dati sono utilizzati come evidenza che ogni sistema planetario ha origini simili in tutto l'Universo. Le stelle si formano quando nubi di idrogeno molecolare ed altri gas in una regione H II si contraggono a causa della loro stessa gravità. Come il gas collassa, la nube centrale cresce rapidamente e il gas interno si riscalda a causa della conversione dell'energia potenziale gravitazionale in energia termica. Se la temperatura e la pressione raggiungono un livello sufficientemente alto, inizia la fusione nucleare che dà origine alla protostella. Di solito, un'altra nube di materia resta al di fuori della stella prima dell'innesco del meccanismo di fusione; questa nube in avanzo, in parte formata anche dai getti del materiale del disco troppo veloce per essere catturato dalla protostella, va a formare il disco protoplanetario della medesima, al cui interno può avvenire la formazione di pianeti. Recenti osservazioni all'infrarosso hanno mostrato come i granuli di polvere di questi dischi possano accrescersi, diventando la base di formazione dei planetesimi. In particolare queste osservazioni all'infrarosso hanno condotto alla individuazione di una classe di dischi detti "Peter Pan". Una volta che la protostella entra nella fase di sequenza principale, è classificata come stella a tutti gli effetti. Le osservazioni mostrano che, sebbene la gran parte dei dischi planetari possa formare pianeti, l'intensa radiazione stellare dovrebbe distruggere tali dischi attorno alle stelle vicino al Trapezio, se questo gruppo fosse così vecchio quanto le stelle di massa inferiore presenti nell'ammasso circostante. Da quando sono stati scoperti dischi protoplanetari anche in stelle molto vicine all'ammasso del Trapezio, può esserne dedotto che queste stelle sono molto più giovani rispetto a quelle circostanti. Una volta formate, le stelle all'interno della nebulosa emettono una corrente di particelle cariche nota come vento stellare. Le stelle più massicce del gruppo OB e le stelle più giovani hanno un vento stellare molto più forte di quello del nostro Sole. Il vento forma onde d'urto nel momento in cui incontra il gas della nebulosa, il quale quindi forma nubi intense di gas. L'onda d'urto derivata dal vento stellare gioca dunque un ruolo fondamentale nel fenomeno della formazione stellare, compattando le nubi di gas, creando densità non omogenee e causando infine il collasso della nube, in un effetto a catena che alla fine interesserà l'intera nebulosa. Ci sono tre differenti tipi di onde d'urto nella Nebulosa di Orione. Molti meccanismi sono spiegati alla voce Oggetto di Herbig-Haro.
- Bow shock: sono fermi e hanno origine quando due correnti di particelle collidono tra loro; si rinvengono vicino alle stelle più calde della nebulosa, dove il vento stellare viaggia alla velocità di migliaia di km al secondo, e nelle regioni esterne della nebulosa, dove la loro velocità si aggira sulle decine di km al secondo.
- Jet-driven shock, letteralmente "urto provocato da un getto": si formano da getti di materiale che fuoriescono dalle neonate stelle T Tauri; questi getti ristretti viaggiano a centinaia di km al secondo, urtando il gas che si muove a velocità ridotta.
- Urti distorti: appaiono a forma di arco e sono prodotti quando un jet-driven shock incontra gas che si muovono in direzioni diverse.
Le dinamiche dei movimenti di gas in M42 sono dunque molto complesse; l'area intorno alle regioni ionizzate è attualmente in contrazione sotto l'effetto della sua stessa gravità. Le nubi interstellari come la Nebulosa di Orione sono state scoperte in tutte le galassie come la Via Lattea. Esse nascono come piccole macchie di idrogeno neutro freddo intramezzato da tracce di altri elementi; la nube può contenere centinaia di migliaia di masse solari ed estendersi per centinaia di anni luce. La leggera forza di gravità che potrebbe portare al collasso della nube è controbilanciata da una debole pressione del gas nella nube. Sia a causa della collisione con i bracci di spirale, sia a causa delle onde d'urto causate dalle supernovae, gli atomi possono iniziare a precipitare in molecole più pesanti, producendo così una nube molecolare. Ciò preannuncia la formazione di stelle all'interno della nube, il che avviene entro un periodo di 10-30 milioni di anni all'interno di aree instabili, dove i volumi destabilizzati collassano in un disco; questo si concentra nelle regioni centrali, dove si formerà la stella, che potrà essere circondata da un disco protoplanetario. Questo è lo stato attuale della Nebulosa di Orione, con in più stelle nuove che si formano in un processo a catena come descritto sopra. Le stelle più giovani che ora sono visibili nella nebulosa si ritiene abbiano un'età inferiore ai 300 000 anni, mentre la loro luminosità potrebbe essere iniziata da appena 10 000 anni. Molti di questi collassi possono dare origine a stelle particolarmente massive, in grado di emettere grandi quantità di radiazione ultravioletta. Un esempio di questo fenomeno è dato dall'ammasso del Trapezio: la radiazione ultravioletta delle stelle massicce al centro della nebulosa allontana il gas e le polveri circostanti in un processo chiamato protoevaporazione. Questo processo è anche responsabile dell'esistenza all'interno della nebulosa di aree "cave", che consentono alle stelle interne di essere vista dalla Terra. Le stelle più grandi del gruppo avranno una vita molto breve, evolvendo rapidamente ed esplodendo come supernovae. In circa 100 000 anni la gran parte del gas e delle polveri saranno espulse. Ciò che rimarrà andrà a formare un giovane ammasso aperto, composto da stelle giovani e brillanti. Le Pleiadi sono un famoso esempio di questo tipo di ammasso.
Nebulosa della Carena
La Nebulosa della Carena (nota anche come Nebulosa di Eta Carinae o con le sigle di catalogo NGC 3372 e C 92) è un oggetto celeste posto nel cuore della Via Lattea australe, nella costellazione della Carena. È perfettamente visibile anche ad occhio nudo, sebbene la sua osservazione sia limitata alle regioni dell'emisfero australe terrestre e a quelle tropicali boreali; fu catalogata per la prima volta da Nicolas Louis de Lacaille nel 1751, durante la sua permanenza a Città del Capo. Si tratta di una delle più grandi regioni H II conosciute all'interno della nostra Galassia: la nebulosa ha dimensioni reali che raggiungono i 260 anni luce e circonda diversi ammassi aperti, nonché una delle stelle più massicce che si conoscano, la variabile η Carinae. Al suo interno sono attivi alcuni fenomeni di formazione stellare, sebbene in misura più ridotta rispetto ad altre nebulose simili: ciò sarebbe un indicatore dell'elevato grado evolutivo di questa nebulosa. La sua distanza è stimata sui 7500 anni luce da noi. Come prova che la formazione stellare, in un passato astronomicamente recente, è stata piuttosto intensa, vi è presente un gran numero di ammassi aperti e associazioni stellari, tutti composti da giovani stelle molto calde e blu, che eccitano il gas della nebulosa e lo perturbano con il loro forte vento stellare. All'interno della nebulosa sono anche presenti delle sottostrutture molto conosciute, come la Nebulosa Omuncolo, che circonda la stella η Carinae e la Nebulosa Buco della Serratura, il cui nome le fu assegnato da John Herschel nella prima metà dell'Ottocento. La Nebulosa della Carena è un vastissimo complesso di gas ionizzati luminosi, visibile anche ad occhio nudo come una macchia brillante; al suo interno si trova la celeberrima stella η Carinae, un astro di dimensioni colossali che, secondo le teorie più accreditate, si prevede possa esplodere in una supernova nel giro di pochi secoli. La nebulosa giace sul ramo più meridionale della Via Lattea australe, ed è invisibile da gran parte dell'emisfero boreale; i mesi più adatti all'osservazione sono quelli dell'autunno australe (la primavera boreale), ossia il periodo che va da marzo a giugno. Nell'emisfero australe comunque la nebulosa può essere osservata anche per molto più tempo, poiché la sua declinazione fa sì che in gran parte dell'emisfero sud della Terra si presenti circumpolare. Osservando con un binocolo, la nebulosa è subito evidente come una macchia chiara allungata più in senso nord-sud, con una netta striscia scura che, addensandosi nelle sue regioni centrali, la taglia da est ad ovest, dividendola in due parti; i dintorni dell'ammasso sono invece ricchissimi di stelle: il tratto di Via Lattea in cui la nebulosa si trova, infatti, è uno dei più brillanti ed intensi della volta celeste, essendo visibile anche in un cielo moderatamente inquinato, al pari di altre aree come la regione del centro galattico e il tratto nella costellazione del Cigno. Con un telescopio amatoriale la nebulosa appare piuttosto estesa; con forti ingrandimenti si nota, poco a nord della parte centrale, una forma curiosa, formata dalla sovrapposizione di una banda scura allungata da nord a sud, soprannominata a causa della sua forma Nebulosa Buco della Serratura. L'intera nebulosa con i relativi ammassi si trova ad una distanza stimata intorno ai 7500 anni luce dal sistema solare. Nel caso della Nebulosa della Carena è piuttosto difficile parlare di uno scopritore in particolare: la sua grande luminosità e le sue dimensioni infatti non possono essere passate inosservate a nessuno dei vari popoli che vivevano nell'emisfero sud della Terra, come pure ad alcuni che popolavano le regioni tropicali boreali; un altro fattore importante è la variabilità della stella η Carinae, che anche nel corso di una sola generazione può variare di diverse magnitudini, raggiungendo la seconda grandezza o addirittura assumendo magnitudine negativa, rivaleggiando con le stelle più brillanti del cielo. Considerando la variabilità di questa stella, fisicamente legata alla nebulosa, è lecito aspettarsi che anche la nebulosa stessa possa variare la sua luminosità, a seconda della quantità di energia che riceve dalla sua stella più massiccia. La nebulosa in sé fu riconosciuta come tale in epoca moderna da Nicolas Louis de Lacaille, il quale la osservò durante la sua permanenza a Città del Capo avvenuta durante il 1751/52; da allora fu riosservata e descritta da tutti coloro che compirono studi astronomici dall'emisfero australe terrestre: John Herschel la studiò dettagliatamente al telescopio attorno al 1837, scoprendo, pochi primi ad ovest di η Carinae, una struttura estremamente appariscente, formata da una regione circolare a cui è connessa una struttura allungata in direzione sud, che egli chiamò Nebulosa Buco della Serratura.[15] Verso la fine dell'Ottocento, Richard Hinckley Allen ricercò questa struttura, senza però trovarne traccia alcuna: egli scrisse così che la nube osservata da Herschel doveva essere sparita nel periodo compreso fra il 1837 e il 1871; la causa reale di questa apparente sparizione fu in realtà la diminuita luminosità di η Carinae: infatti mentre all'inizio del secolo questa stella illuminava e potenziava la regione di gas osservata da Herschel, diventando estremamente brillante, verso la fine, con il diminuire della quantità di luce ricevuta, i gas si oscurarono, diventando quasi invisibili. A partire dal Novecento la struttura osservata da Herschel è visibile solo con potenti telescopi e si mostra come una nube a tratti poco brillante e a tratti decisamente oscura. A causa del fenomeno conosciuto come precessione degli equinozi, le coordinate celesti di stelle e costellazioni possono variare sensibilmente, a seconda della loro distanza dal polo nord e sud dell'eclittica. Fino a circa 2000 anni fa la nebulosa, assieme al ramo della Via Lattea al quale appartiene, era ben visibile dalle coste mediterranee meridionali e anche da parte della stessa Europa mediterranea; nel corso dei secoli poi il moto di precessione ha fatto sì che la nebulosa assumesse una declinazione sempre più australe. Attualmente l'area di cielo della costellazione della Carena è in costante movimento verso sud, e fra circa 5000 anni, come si evince dall'immagine a destra, sarà ad appena 6° dal polo sud celeste. Circa 7000 anni fa invece la parte di cielo in cui si trova la nebulosa si trovava a 6h di ascensione retta, ossia nella coordinata in cui gli oggetti raggiungono, ad eccezione della ristretta fascia attorno al polo sud dell'eclittica, la declinazione più settentrionale (si noti come l'intersezione dell'eclittica con le 6h di ascensione retta corrispondano al solstizio d'estate); in quell'epoca, la Nebulosa della Carena raggiunse una declinazione pari a 37°S, diventando così visibile fino alla latitudine di 53°N, ossia alle regioni meridionali dell'attuale Inghilterra. La Nebulosa della Carena fa parte del Braccio del Sagittario (noto anche come Braccio Carena-Sagittario), il braccio di spirale immediatamente più interno del nostro; dopo essere passato, rispetto a noi, davanti al centro galattico, oscurandolo, questo braccio prosegue in direzione del Centauro e della Carena, dove poi gira per passare dall'altra parte della Galassia rispetto a noi. Uno studio del 2008 tuttavia afferma che questo braccio sarebbe solo una grande condensazione di gas e polveri da cui sono nate diverse stelle giovani. Il contesto galattico in cui la nebulosa si trova è pervaso da un gran numero di ammassi aperti e associazioni, molti dei quali si son creati dalla stessa nebulosa. Vista dalla nostra prospettiva, nei pressi di quest'oggetto appaiono diversi brillanti agglomerati di stelle; tuttavia, si tratta solo di effetti prospettici, dato che una buona parte di questi ammassi sono in realtà molto più vicini a noi. L'ammasso definito Pozzo dei Desideri (NGC 3532) è apparentemente il più vicino a questa nebulosa: si tratta di una grande concentrazione di piccole stelle di vari colori, visibile poco a nord-est; in realtà la sua distanza è pari a 1300 anni luce, dunque si trova in primo piano, nel bordo estremo del nostro braccio di spirale, quello di Orione. Un altro oggetto molto appariscente è l'ammasso noto come Pleiadi del Sud (IC 2602), la cui distanza è però stimata sui 479 anni luce, essendo così l'ammasso aperto più vicino osservabile in questa parte di cielo; poco a sud di quest'ultimo si trova Mel 101, un oggetto sfuggente che però appartiene allo stesso ambiente galattico della Nebulosa della Carena. Gli ammassi fisicamente legati alla nebulosa sono molto meno appariscenti, perché più lontani, e riportano delle sigle di catalogo diverse dall'NGC o dall'IC, come si vedrà più avanti; questi ammassi sono composti da giovani stelle azzurre, residuo di un grande processo di formazione stellare avuto luogo alcuni milioni di anni fa all'interno della nebulosa stessa. Fa eccezione il brillante ammasso NGC 3293, visibile a nord-ovest, composto da una settantina di giovani stelle azzurre con un'età che si aggira sui 5 milioni di anni; l'oggetto è immerso e circondato da un campo ricco di altre stelle giovani, un'associazione stellare nota come Carina OB1. L'area in cui giacciono queste stelle è pervasa da una nebulosità riflettente di fondo, specie in direzione nord-ovest e sud-est; la distanza di quest'ammasso sarebbe di circa 8000 anni luce, dunque paragonabile a quella della Nebulosa della Carena. La Nebulosa della Carena è la più grande ed estesa nebulosa visibile ad occhio nudo sulla volta celeste; le sue dimensioni, sia apparenti che reali, sono superiori a quelle della ben nota Nebulosa di Orione, ed anche la sua magnitudine è superiore: la Nebulosa di Orione si estende infatti su circa un grado quadrato di volta celeste, con un diametro reale di 24 anni luce; la Nebulosa della Carena occupa invece oltre quattro gradi quadrati e possiede un diametro di ben 260 anni luce. Ad una distanza di circa 7500 anni luce, ossia quasi 8 volte superiore a quella della Nebulosa di Orione le sue dimensioni apparenti sono molto superiori rispetto a quest'ultima. Tuttavia, è una nebulosa finora meno studiata a causa della sua posizione in cielo, che fa sì che sia ottimamente osservabile solo dalle latitudini australi. Appartiene al Braccio Carena-Sagittario, un braccio di spirale della Via Lattea più interno rispetto al nostro. La nebulosa è formata per gran parte da idrogeno, mentre l'elio costituisce un quarto della sua massa totale; altri elementi più pesanti sono presenti solo in piccole percentuali. All'interno di essa, la quasi totale assenza di globuli di Bok indica che il fenomeno della formazione stellare, a differenza di altre nebulose, sarebbe fermo o poco attivo; questo fenomeno è stato però in passato assai vigoroso, come confermato dalla presenza di un gran numero di stelle giovani di grande massa, come le cosiddette giganti blu. Queste stelle sono anche responsabili dell'intensa radiazione ultravioletta che pervade l'intera nebulosa, che ionizzandone gli atomi, diventa essa stessa luminosa. Molte di queste stelle giovani sono riunite in ammassi aperti: nelle sue regioni centrali ve ne sarebbero almeno otto, di cui quattro appaiono vicini alle regioni centrali. La nebulosa è la fonte della più luminosa emissione di raggi X fra tutte le regioni H II note nella nostra Galassia; la causa di queste emissioni non è stata chiarita con certezza. Uno studio del 2005 condotto con l'osservatorio a raggi X Suzaku ha permesso di identificare diverse aree di emissione più o meno intense: nella parte meridionale, lo spettro mostra delle forti linee di emissione degli ioni Fe e Si, mentre nel settore settentrionale queste emissioni sono molto più deboli; ne consegue che l'abbondanza di questi due elementi è 2-3 volte maggiore nel settore meridionale che in quello settentrionale.[ù Alcuni scienziati nel corso degli anni ottanta hanno ipotizzato che queste emissioni, come pure quelle nei raggi gamma, vengano prodotte da dei forti venti stellari che collidono con l'ambiente nebuloso in cui si trovano. Più di recente si è teorizzato che queste emissioni diffuse siano state causate dall'esplosione di un'antica supernova o, meglio, dalla presenza di un'eventuale superbolla prodotta da ripetute esplosioni di supernovae; una singola supernova sarebbe infatti in grado di eccitare l'intera nebulosa, ma la massa totale di ferro disperso nel gas diffuso non può essere stato causato da un solo evento di questo genere. Non vi sono evidenze dirette di resti di supernova all'interno della nebulosa, né nelle onde radio, né ai raggi X; vi sono comunque due pulsar, 1E 1048.1-5937 e PSR J1052−5954, situate entro 1° dalla stella η Carinae, al di fuori della struttura centrale della nebulosa nota come "Buco della Serratura". Alcuni autori hanno comunque suggerito che questa forte turbolenza non può essere spiegata né con il forte vento stellare, né con l'esplosione di una supernova, poiché risulta essere troppo forte per essere stata causata da questi eventi; la radiazione sarebbe invece stata già presente prima della formazione della nube molecolare gigante che ha dato origine alla Nebulosa della Carena. Questa radiazione sarebbe stata causata da un gran numero di esplosioni di supernovae (almeno 20), responsabili della formazione di una eventuale "superbolla a brillamento della Carena", ormai dissipata. D'altra parte, si è scoperto che la nebulosa possiede una struttura bipolare, che suggerisce la presenza di uno o più resti di supernova originari; in entrambi i casi, l'apparente assenza di evidenti resti di supernova non sarebbe un problema, dato che le esplosioni che provocarono le emissioni a raggi X che eccitarono la nebulosa avvennero alcuni milioni di anni fa. L'area di cielo occupata dalla Nebulosa della Carena è pari a circa 2° x 2°, equivalenti a 4 gradi quadrati della volta celeste; include al suo interno nubi interstellari, giovani associazioni stellari e nebulosità riflettenti la luce delle vicine stella calde. Al suo interno si trova uno dei più grandi complessi di stelle insolitamente massicce conosciute all'interno della nostra Galassia, fra i quali i giovani ammassi aperti Tr 14, Tr 15 e Tr 16, Cr 228 e Cr 232, più Bochum 10 e Bochum 11; tutti insieme, questi ammassi contengono almeno 64 stelle di classe spettrale O e due stelle di Wolf-Rayet, ossia ciò che resta di un violento fenomeno di formazione stellare avvenuto circa 3 milioni di anni fa. Fra le stelle presenti in quest'area vi sono alcuni esempi di rari astri di classe spettrale 03 di sequenza principale. La regione della nebulosa più studiata è quella centrale, incentrata su un'area di cielo di 0,5 gradi quadrati di cielo contenente le due associazioni Tr 14 e Tr 16, la Nebulosa Buco della Serratura e l'intensa linea scura a forma di "V" che taglia in due parti il complesso nebuloso, linea formata da polveri non illuminate. Studi ottenuti nel lontano infrarosso suggeriscono che la Nebulosa della Carena sia una regione H II molto evoluta, con perdita di polveri e gas neutro dal suo nucleo; inoltre, nella nebulosa non sono presenti gli addensamenti compatti e ad alta densità di stelle circondate da nubi che si osservano in altre regioni H II, come W49 e W51. Solo alcune aree della nebulosa sono soggette ad un intenso fenomeno di formazione stellare. Osservazioni condotte invece su larga scala mostrano che questa nebulosa possiede una struttura bipolare compressa nella zona centrale ai due lati da polveri e gas freddi; l'asse maggiore è grosso modo perpendicolare al piano galattico. I suoi lobi bipolari hanno un diametro di circa 1°, equivalenti a 40 parsec (130 anni luce) se si considera la distanza della nube pari a 7500 anni luce, e non possiedono una forma sferica e regolare; le regioni interne di questi lobi emettono radiazione OIII e sono circondate da filamenti emittenti radiazione Hα e SII. Il lobo settentrionale mostra evidenze di impatto con il piano galattico, mentre il grande lobo che si estende a meridione appare essere legato in sequenza con una serie di strutture a guscio che si estendono fino ad un'angolazione di 2,7° (pari a 110 parsec/360 anni luce) dal centro della nebulosa. La struttura a poli della nebulosa suggerisce che l'espansione lungo il piano galattico è stata inibita dal gas molecolare circostante, costringendo il gas a dirigersi in due direzioni opposte verso i poli galattici locali; ciò a sua volta suggerisce che in origine la nube molecolare doveva avere una forma relativamente piatta ed essere contenuta tutta entro la zona centrale del piano galattico. Il lobo polare che si estende verso nord è caratterizzato, soprattutto in direzione nord-ovest, dalla presenza di una complessa rete di strutture filamentose disposte ad archi ed a guisa di gusci; la morfologia di questa regione dà l'impressione che la regione H II si stia espandendo in una zona il cui mezzo interstellare è disomogeneo, ricco di strutture più o meno dense che gli conferiscono un aspetto poroso e "a bolle". Molte di queste strutture filamentose visibili all'infrarosso coincidono con delle regioni oscure e si estendono vicino a dei fronti di espansione ionizzati e visibili otticamente. Nonostante le precedenti osservazioni avessero mostrato che i fenomeni di formazione stellare all'interno della Nebulosa della Carena fossero ridotti o inesistenti, dai dati di alcuni studi emerge che la nascita di nuove stelle non si è completamente arrestata con la formazione degli ammassi di stelle giovani e massicce osservati. La parte settentrionale sembra inoltre possedere più siti di formazione stellare rispetto alle aree centrali; infine, i membri dell'associazione di stelle nota come Tr 14 creano un ambiente estremamente instabile per la nube molecolare, che tenderebbe a subire l'influsso del forte vento stellare di queste stelle. Lungo i bordi della nebulosa si possono osservare delle condensazioni che formano delle strutture simili a sporgenze e dei corrugamenti; alcune di queste strutture, che agli infrarossi appaiono brillanti, si trovano sulla linea del fronte di ionizzazione. Le dimensioni di questi globuli sono pari a circa 1 pc (3,26 anni luce) e la separazione media fra i vari globuli lungo un dato filamento è di circa 5 pc. Dato che molte di queste strutture si trovano nelle regioni neutre direttamente a contatto con il fronte di ionizzazione, ci sono ottime probabilità che si tratti di siti in cui è attiva la formazione stellare. La posizione di questi globuli alla periferia della nebulosa lungo il fronte di ionizzazione ad est della stella η Carinae sono in interazione con le vicine stelle massicce e si sarebbero formati come risultato delle instabilità degli strati di gas e polveri in accelerazione. Secondo alcuni studi è emerso che la formazione stellare nella regione della nebulosa sia iniziata nel suo settore nord-occidentale: l'esito di questi primi fenomeni di formazione sarebbero oggi visibili sotto forma di brillanti ammassi aperti, in particolare di NGC 3293, visibile circa 1° a nord-ovest della nebulosa, e il più piccolo IC 2581, sempre nella stessa direzione; in seguito alla formazione di questi due ammassi gli episodi di formazione stellare si sarebbero spostati progressivamente verso sud-est, fino a raggiungere l'attuale posizione. Secondo un altro studio datato 2003, la formazione stellare sarebbe comunque ancora attiva nella regione circostante l'ammasso, come sarebbe stato testimoniato dalla scoperta di alcune stelle di pre-sequenza principale.
Glossario: sequenza principale
La sequenza principale è una continua ed evidente banda di stelle disposta in senso pressoché diagonale nel diagramma Hertzsprung-Russell, una rappresentazione grafica che mette in relazione la temperatura effettiva (riportata in ascissa) e la luminosità (riportata in ordinata) delle stelle. Le stelle che si addensano in questa fascia sono dette stelle di sequenza principale o "stelle nane", anche se quest'ultima designazione è caduta in disuso. Dopo essersi formata in una nube molecolare, una stella genera energia nel suo nucleo tramite le reazioni nucleari di fusione dell'idrogeno in elio. Durante questa lunga fase del suo ciclo vitale, la stella si pone all'interno della sequenza principale in una posizione che è determinata principalmente dalla sua massa e da altri fattori quali la sua composizione chimica. Tutte le stelle di sequenza principale si trovano in uno stato di equilibrio idrostatico in cui la pressione termica e, nelle stelle massicce, la pressione di radiazione 3 del nucleo, dirette verso l'esterno, contrastano il naturale collasso gravitazionale degli strati della stella, diretto verso l'interno.
Approfondiamo: la sequenza principale
La sequenza principale è una continua ed evidente banda di stelle disposta in senso pressoché diagonale nel diagramma Hertzsprung-Russell, una rappresentazione grafica che mette in relazione la temperatura effettiva (riportata in ascissa) e la luminosità (riportata in ordinata) delle stelle. Le stelle che si addensano in questa fascia sono dette stelle di sequenza principale o "stelle nane", anche se quest'ultima designazione è caduta in disuso. Dopo essersi formata in una nube molecolare, una stella genera energia nel suo nucleo tramite le reazioni nucleari di fusione dell'idrogeno in elio. Durante questa lunga fase del suo ciclo vitale, la stella si pone all'interno della sequenza principale in una posizione che è determinata principalmente dalla sua massa e da altri fattori quali la sua composizione chimica. Tutte le stelle di sequenza principale si trovano in uno stato di equilibrio idrostatico in cui la pressione termica e, nelle stelle massicce, la pressione di radiazione 3 del nucleo, dirette verso l'esterno, contrastano il naturale collasso gravitazionale degli strati della stella, diretto verso l'interno. A mantenere questo equilibrio contribuisce la forte dipendenza del tasso di creazione dell'energia dalla temperatura e dalla densità. L'energia prodotta nel nucleo viene trasportata attraverso gli strati superiori tramite irraggiamento o convezione, a seconda del gradiente di temperatura e dell'opacità; alla fine raggiunge la fotosfera, da cui è irradiata nello spazio sotto forma di energia radiante. Le stelle di sequenza principale con una massa superiore alle 1,5 masse solari (M☉) possiedono un nucleo convettivo, mentre fra il nucleo e la superficie l'energia viene trasportata per irraggiamento. Nelle stelle di massa compresa fra 1,5 M☉ e 0,5 M☉ avviene il contrario: esse possiedono un nucleo in cui la trasmissione dell'energia avviene per irraggiamento, mentre la convezione si innesca al di sopra del nucleo, in prossimità della superficie. Infine, le stelle di sequenza principale con massa inferiore a 0,5 M☉ hanno un interno completamente convettivo. Più la stella è massiccia, minore è il tempo in cui permane nella sequenza principale; questo perché, all'incrementare della massa, è necessario che i processi nucleari avvengano ad un ritmo superiore (e quindi anche più rapidamente) per contrastare la gravità della maggiore massa ed evitare il collasso. Dopo che il quantitativo di idrogeno nel nucleo si è completamente convertito in elio, la stella esce dalla sequenza principale, seguendo differenti "tragitti" a seconda della massa: le stelle con meno di 0,23 M☉ divengono direttamente delle nane bianche, mentre le stelle con masse maggiori passano per la fase di stella gigante o, a seconda della massa, supergigante, per poi arrivare, previa fenomeni più o meno violenti (come l'esplosione di una supernova), alla fase finale di stella degenere. La sequenza principale è talvolta suddivisa in due parti, una superiore e una inferiore, sulla base del processo prevalentemente utilizzato dalla stella nel produrre energia. La parte bassa della sequenza è occupata dalle stelle aventi una massa inferiore alle 1,5 M☉, le quali fondono l'idrogeno in elio sfruttando una sequenza di reazioni che prende il nome di catena protone-protone. Al di sopra di questa massa, nella sequenza principale superiore, la fusione dell'idrogeno in elio avviene sfruttando come catalizzatori gli atomi di carbonio, azoto e ossigeno, in un ciclo di reazioni noto come ciclo CNO. Agli inizi del XX secolo erano già disponibili numerose informazioni sulle proprietà delle stelle e sulle loro distanze dalla Terra. La scoperta che lo spettro di ogni stella presentava delle caratteristiche che permettevano di distinguere tra una stella e l'altra permise di sviluppare diversi sistemi classificativi; tra questi uno dei più importanti fu quello implementato da Annie Jump Cannon ed Edward Charles Pickering presso l'Harvard College Observatory che divenne noto come schema di Harvard, in seguito alla sua pubblicazione negli Harvard Annals nel 1901. A Potsdam, nel 1906, l'astronomo danese Ejnar Hertzsprung notò che le stelle il cui colore tendeva maggiormente al rosso (classificate nei tipi K ed M dello schema di Harvard) potevano essere suddivise in due gruppi a seconda che queste fossero più o meno luminose del Sole; per distinguere i due gruppi, diede il nome di "giganti" alle più brillanti e "nane" alle meno luminose. L'anno successivo iniziò a studiare gli ammassi stellari (gruppi di stelle poste approssimativamente alla stessa distanza), pubblicando i primi grafici che mettevano a confronto il colore e la luminosità delle stelle che li costituivano; in questi grafici compariva un'evidente banda continua di stelle, cui Hertzsprung diede il nome di "sequenza principale". 7 Una simile linea di ricerca era perseguita presso l'Università di Princeton da Henry Norris Russell, che studiava le relazioni tra la classe spettrale di una stella e la sua luminosità effettiva considerando la distanza (ovvero, la magnitudine assoluta). A tale proposito si servì di un certo numero di stelle che possedevano dei valori affidabili della parallasse e che erano state categorizzate secondo lo schema di Harvard. Quando realizzò una rappresentazione grafica dei tipi spettrali di queste stelle raffrontati con la loro magnitudine assoluta, Russell scoprì che le "stelle nane" individuate da Hertzsprung seguivano una relazione distinta dagli altri tipi; questo consentì di predire la reale luminosità della stella con una ragionevole accuratezza. Le stelle rosse di sequenza principale osservate da Hertzsprung rispettavano la relazione spettro-luminosità scoperta da Russell. Tuttavia le giganti erano molto più luminose delle stelle nane e quindi non rispettavano tale relazione. Russell ipotizzò che le stelle giganti avessero una bassa densità o una grande superficie radiante, mentre il contrario era vero per le stelle nane. Nel 1933 Bengt Strömgren coniò il termine diagramma Hertzsprung-Russell per denotare il diagramma spettro-luminosità. Questo nome derivava dal fatto che Hertzsprung e Russell avevano compiuto ricerche parallele sullo stesso problema nei primi anni del Novecento. I modelli di evoluzione stellare proposti intorno agli anni trenta del novecento prevedevano che, per le stelle di composizione chimica simile, vi fosse una relazione fra la massa stellare, la sua luminosità e il suo raggio. Questa relazione venne enunciata nel teorema Vogt-Russell, così chiamato in onore dei suoi scopritori Heinrich Vogt e Henry Norris Russell. Tale teorema afferma che una volta che sia nota la composizione chimica di una stella e la sua posizione nella sequenza principale è possibile ricavare il raggio e la massa della stella (tuttavia, fu scoperto successivamente che il teorema non si applica alle stelle che hanno composizione chimica non uniforme) . Uno schema perfezionato di classificazione stellare fu pubblicato nel 1943 da W. W. Morgan and P. C. Keenan. La classificazione MK assegna ad ogni stella una classe spettrale (basata sullo schema di Harvard) e una classe di luminosità. Lo schema di Harvard assegnava a ogni stella una lettera dell'alfabeto sulla base della forza delle linee spettrali dell'idrogeno che lo spettro della stella presentava. Ciò era stato fatto quando ancora la relazione fra lo spettro e la temperatura non era nota. Quando le stelle furono ordinate per temperatura e quando alcuni doppioni fra le classi furono rimossi, le classi spettrali furono ordinate secondo una temperatura decrescente a formare la sequenza O, B, A, F, G, K e M (In lingua inglese è stata coniata una frase per ricordarsi facilmente questa scala: "Oh Be A Fine Girl/Guy, Kiss Me"; Oh, sii una ragazza/un ragazzo gentile, baciami). Le classi O e B corrispondevano ai colori blu e azzurri, mentre le classi K e M ai colori arancio-rossi. Le classi intermedie ai colori bianco (classe A) e giallo (classe G), mentre la classe F presentava un colore intermedio fra i due. Le classi di luminosità variavano da I fino a V, in ordine di luminosità decrescente. Le stelle di luminosità V corrispondevano a quelle di sequenza principale . Importante è il concetto di formazione stellare. La locuzione formazione stellare identifica il processo e la disciplina che studia le modalità mediante le quali ha origine una stella. Quale branca dell'astronomia, la formazione stellare studia anche le caratteristiche del mezzo interstellare e delle nubi interstellari in quanto precursori, così come gli oggetti stellari giovani e il processo di formazione planetaria in quanto immediati prodotti. Nonostante le idee che ne stanno alla base risalgano già all'epoca della rivoluzione scientifica, lo studio della formazione stellare nella sua forma attuale vede la luce solamente tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo, in concomitanza con i numerosi progressi che l'astrofisica teorica compì all'epoca. L'avvento dell'osservazione a più lunghezze d'onda, soprattutto nell'infrarosso, diede i contributi più sostanziali per comprendere i meccanismi che stanno alla base della genesi di una nuova stella. Il modello attualmente più accreditato presso la comunità astronomica, detto modello standard, prevede che una stella nasca a partire dal collasso gravitazionale delle porzioni più dense (dette "nuclei") di una nube molecolare e dal successivo accrescimento dell'embrione stellare, originatosi dal collasso, a partire dai materiali presenti della nube. Tale processo ha una durata che può variare tra alcune centinaia di migliaia e alcuni milioni di anni, a seconda del tasso di accrescimento e della massa che la stella nascitura riesce ad accumulare: si stima che una stella simile al Sole impieghi all'incirca un centinaio di milioni di anni per formarsi completamente, mentre per le stelle più massicce il tempo è notevolmente inferiore, nell'ordine dei 100 000 anni. Il modello spiega bene le modalità che conducono alla nascita delle singole stelle di massa piccola e media (tra 0,08 e 10 volte la massa solare) e trova riscontro anche nella funzione di massa iniziale; risulta più lacunoso invece per quanto riguarda la formazione dei sistemi e degli ammassi stellari e delle stelle massicce. Per tale ragione sono stati sviluppati dei modelli complementari che includono gli effetti delle interazioni tra gli embrioni stellari e l'ambiente in cui si formano ed eventuali altri embrioni nelle vicinanze, importanti ai fini delle stesse dinamiche interne dei sistemi e soprattutto della massa che le stelle nasciture riusciranno a raggiungere. Le fasi successive della vita della stella, a partire dalla sequenza principale, sono di competenza dell'evoluzione stellare. Lo studio della formazione stellare, nella sua forma moderna, è databile tra il XIX e il XX secolo, anche se le idee che ne stanno alla base affondano le loro radici nel periodo rinascimentale quando, poste le fondamenta per la rivoluzione scientifica, fu messa in discussione la visione geocentrica del cosmo a vantaggio di quella eliocentrica; grazie al contributo di grandi personalità come Copernico e Keplero e, più tardi, Galileo, lo studio dell'universo divenne materia di studio non più teologica ma scientifica. Le teorie sulla formazione delle stelle vedono il loro primo abbozzo nelle ipotesi formulate per spiegare la nascita del sistema solare. Uno dei primi fu Cartesio, che nel 1644 propose una teoria "scientifica" basata sull'ipotesi della presenza di vortici primordiali di materia in contrazione caratterizzati da masse e dimensioni differenti; da uno dei più grandi ebbe origine il Sole, mentre i pianeti si formarono dai vortici più piccoli che a causa della rotazione globale si misero in orbita intorno ad esso: 6 si trattava dell'abbozzo di quella che sarà la cosiddetta ipotesi della nebulosa, formulata nel 1734 da Emanuel Swedenborg, successivamente ripresa da Kant (1755) e perfezionata da Laplace (1796), il cui principio sta tutt'oggi, seppur con sostanziali modifiche e migliorie, alla base di quello che secoli dopo e nonostante alterne vicende sarà definito modello standard della formazione stellare. 8 Tale teoria suggerisce che il Sole e i pianeti che lo orbitano abbiano tratto origine tutti da una stessa nebulosa primordiale, la nebulosa solare. La formazione del sistema avrebbe avuto inizio dalla contrazione della nebulosa, che avrebbe determinato un aumento della propria velocità di rotazione, facendo sì che essa assumesse un aspetto discoidale con un maggiore addensamento di materia in corrispondenza del suo centro, da cui sarebbe nato il proto-Sole. Il resto della materia circumsolare si sarebbe dapprima condensato in anelli, da cui poi avrebbero avuto origine i pianeti. Sebbene abbia goduto di gran credito nel XIX secolo, l'ipotesi laplaciana non riusciva a spiegare alcune particolarità riscontrate, prima fra tutte la distribuzione del momento angolare tra Sole e pianeti: i pianeti infatti detengono il 99% del momento angolare, mentre il semplice modello della nebulosa prevede una più "equa" distribuzione del momento angolare tra Sole e pianeti; 8 per questa ragione tale modello è stato largamente accantonato all'inizio del XX secolo. La caduta del modello di Laplace ha stimolato gli astronomi a ricercare delle valide alternative; si trattava però spesso di modelli teorici che non trovavano alcun riscontro osservativo. L'individuazione poi, nel corso degli ultimi decenni del Novecento, di strutture analoghe al disco protosolare attorno ad oggetti stellari giovani portò alla rivalutazione dell'idea laplaciana. Un contributo importante alla comprensione di cosa desse inizio alla formazione di una stella fu dato dall'astrofisico britannico James Jeans agli inizi del XX secolo. 1 Jeans ipotizzò che all'interno di una vasta nube di gas interstellare la gravità fosse perfettamente bilanciata dalla pressione generata dal calore interno della nube, ma scoprì che si trattava di un equilibrio assai instabile, tant'è che facilmente poteva rompersi a favore della gravità, facendo collassare la nube e dando inizio alla formazione di una stella. L'ipotesi di Jeans trovò ampio riscontro quando, a partire dagli anni quaranta, furono individuate in alcune nebulose oscure delle costellazioni del Toro e dell'Auriga alcune stelle che sembravano in rapporto con le nubi all'interno delle quali erano state individuate; esse inoltre erano di un tipo spettrale caratteristico delle stelle più fredde e meno massicce, mostravano nei loro spettri righe di emissione ed avevano una notevole variabilità. L'astronomo sovietico Viktor Ambarcumjan suggerì, verso la fine degli anni quaranta, che si trattasse di oggetti molto giovani; nello stesso periodo Bart Bok studiava alcuni piccoli aggregati di polveri oscure, 12 oggi noti come globuli di Bok, e ipotizzò che questi, assieme alle nubi oscure più grandi, fossero sede di attiva formazione stellare, tuttavia fu necessario attendere lo sviluppo dell'astronomia dell'infrarosso, negli anni sessanta, prima che queste teorie venissero confermate dalle osservazioni. È stato proprio l'avvento dell'osservazione infrarossa a incentivare lo studio della formazione stellare: Mendoza, nel 1966, scoprì che alcune stelle di tipo T Tauri possedevano un importante eccesso di emissione infrarossa, difficilmente imputabile alla sola estinzione (l'assorbimento della luce da parte della materia posta davanti alla sorgente luminosa che si manifesta con un arrossamento della stessa) operata dal mezzo interstellare; tale fenomeno fu interpretato ipotizzando la presenza di strutture di polveri dense attorno a tali astri in grado di assorbire la radiazione delle stelle centrali e di riemetterla sotto forma di radiazione infrarossa. L'ipotesi fu confermata tra la fine degli anni novanta e i primi anni duemila grazie ai dati osservativi ottenuti tramite strumentazioni innovative, come il ben noto telescopio spaziale Hubble, il telescopio spaziale Spitzer e il Very Large Telescope con le sue ottiche adattive, di densi dischi di materia attorno a stelle in fase di formazione o appena formate; l'interferometria ottica ha inoltre permesso di individuarne numerosi esempi e di visualizzare altre strutture legate a stelle in fasi precoci della loro esistenza, quali getti e flussi molecolari. Una stella è fondamentalmente uno sferoide di plasma costituito per la gran parte da idrogeno, dalla cui fusione l'astro ricava l'energia necessaria per contrastare l'altrimenti inevitabile collasso gravitazionale della grande massa di materia che lo compone. Condizione necessaria dunque perché una stella possa formarsi è una fonte di idrogeno, reperibile nel mezzo interstellare (ISM, dall'inglese interstellar medium) presente comunemente all'interno di una galassia. Una tipica galassia spiraliforme, come la Via Lattea, contiene grandi quantità di mezzo interstellare, che si dispone principalmente lungo i bracci che delineano la spirale, ove la gran parte della materia che lo costituisce, qui convogliata a causa del moto di rotazione della galassia, può formare strutture diffuse. La situazione cambia procedendo lungo la sequenza di Hubble, fino ad arrivare alle più esigue quantità di materia presenti nel mezzo interstellare delle galassie ellittiche; conseguentemente, man mano che si riduce la quantità di ISM vien meno la possibilità che si formino strutture nebulari diffuse, a meno che la galassia carente non acquisisca materiale da altre galassie con cui eventualmente interagisce. Il mezzo interstellare è inizialmente piuttosto rarefatto, con una densità compresa tra 0,1 e 1 particella per cm³, ed è composto per circa il 70% in massa da idrogeno, mentre la restante percentuale è in prevalenza elio con tracce di elementi più pesanti, detti genericamente metalli. La dispersione di energia sotto forma di radiazione nell'infrarosso lontano (meccanismo questo assai efficiente) traducendosi in un raffreddamento della nube, 3 fa sì che la materia del mezzo si addensi in nubi distinte, dette genericamente nubi interstellari, classificate in maniera opportuna a seconda dello stato di ionizzazione dell'idrogeno. Le nubi costituite in prevalenza da idrogeno neutro monoatomico sono dette regioni H I (acca primo). Man mano che il raffreddamento prosegue, le nubi divengono sempre più dense; quando la densità raggiunge le 1000 particelle al cm³, la nube diviene opaca alla radiazione ultravioletta galattica. Tale condizione, unita all'intervento dei granuli di polvere interstellare in qualità di catalizzatori, permette agli atomi di idrogeno di combinarsi in molecole biatomiche (H2): si ha così una nube molecolare. I maggiori esemplari di queste strutture, le nubi molecolari giganti, possiedono densità tipiche dell'ordine delle 100 particelle al cm³, diametri di oltre 100 anni luce, masse superiori a 6 milioni di masse solari (M☉) ed una temperatura media, all'interno, di 10 K. Si stima che circa la metà della massa complessiva del mezzo interstellare della nostra galassia sia contenuta in queste formazioni, 25 suddivisa tra circa 6000 nubi ciascuna con più di 100 000 masse solari di materia al proprio interno. 26 La presenza, frequentemente riscontrata, di molecole organiche anche molto complesse, come amminoacidi ed IPA, all'interno di queste formazioni 27 è il risultato di reazioni chimiche tra alcuni elementi (oltre all'idrogeno, carbonio, ossigeno, azoto e zolfo) che si verificano grazie all'apporto energetico fornito dai processi di formazione stellare che hanno luogo al loro interno. Se la quantità di polveri all'interno della nube molecolare è tale da bloccare la radiazione luminosa visibile proveniente dalle regioni retrostanti, essa appare come una nebulosa oscura; tra le nubi oscure si annoverano i già citati globuli di Bok, "piccoli" aggregati di idrogeno molecolare e polveri che si possono formare indipendentemente o in associazione al collasso di nubi molecolari più vaste. I globuli di Bok, così come le nubi oscure, si presentano spesso come delle sagome scure contrastanti con il chiarore diffuso dello sfondo costituito da una nebulosa a emissione o dalle stelle di fondo. Si pensa che un tipico globulo di Bok contenga circa 10 masse solari di materia in una regione di circa un anno luce (a.l.) di diametro, e che da essi abbiano origine sistemi stellari doppi o multipli. Oltre la metà dei globuli di Bok noti contengono al loro interno almeno un oggetto stellare giovane. L'eventuale raggiungimento di densità ancora superiori (~10 000 atomi al cm³) rende le nubi opache anche all'infrarosso, che normalmente è in grado di penetrare le regioni ricche di polveri. Tali nubi, dette nubi oscure all'infrarosso, contengono importanti quantità di materia (da 100 a 100 000 M☉) e costituiscono l'anello di congiunzione evolutivo tra la nube e i nuclei densi che si formano per il collasso e la frammentazione della nube. Le nubi molecolari e oscure costituiscono il luogo d'elezione per la nascita di nuove stelle. L'eventuale presenza di giovani stelle massicce, che con la loro intensa emissione ultravioletta ionizzano l'idrogeno ad H+, trasforma la nube in un particolare tipo di nube a emissione noto come regione H II (acca secondo). Nella nostra Galassia sono note numerose regioni di formazione stellare; le più vicine in assoluto al sistema solare sono il complesso della nube di ρ Ophiuchi (400-450 a.l.) 33 e la Nube del Toro-Auriga (460-470 a.l.), al cui interno stanno avvenendo processi di formazione che riguardano stelle di massa piccola e media, come pure nella ben nota e studiata Nube di Perseo, tuttavia ben più distante delle altre due (980 a.l.). Tra le regioni H II degne di nota spiccano la Nebulosa della Carena, la Nebulosa Aquila e la famosa Nebulosa di Orione, facente parte di un esteso complesso molecolare, che rappresenta la regione più prossima al sistema solare (1300 a.l.) al cui interno si stia verificando la formazione di stelle massicce. Si ipotizza che le nubi da cui nascono le stelle facciano parte del ciclo del mezzo interstellare, ovvero la materia costituente il mezzo interstellare (gas e polveri) passa dalle nubi alle stelle e, al termine della loro esistenza, torna nuovamente a far parte dell'ISM, costituendo la materia prima per una successiva generazione di stelle Nello studio del processo di formazione stellare sono prese in considerazione due diverse scale temporali. Per una stella di massa solare equivale a circa 20 milioni di anni, ma per un astro di 50 masse solari si riduce ad un centinaio di migliaia di anni. La seconda scala temporale è rappresentata dal tempo di accrescimento, ovvero il tempo necessario perché, a un dato tasso di accrescimento, si accumuli una certa massa; esso è direttamente proporzionale alla massa stessa: è intuitivo, infatti, che sia necessario più tempo per raccogliere quantità di materia maggiori. È inoltre inversamente proporzionale alla temperatura del gas, dal momento che l'energia cinetica, e di conseguenza la pressione, aumentano all'incrementare della temperatura, rallentando dunque l'accumulo di materia. Per una stella di massa solare equivale a circa 20 milioni di anni, ma per un astro di 50 masse solari si riduce ad un centinaio di migliaia di anni. La seconda scala temporale è rappresentata dal tempo di accrescimento, ovvero il tempo necessario perché, a un dato tasso di accrescimento, si accumuli una certa massa; esso è direttamente proporzionale alla massa stessa: è intuitivo, infatti, che sia necessario più tempo per raccogliere quantità di materia maggiori. È inoltre inversamente proporzionale alla temperatura del gas, dal momento che l'energia cinetica, e di conseguenza la pressione, aumentano all'incrementare della temperatura, rallentando dunque l'accumulo di materia. I nuclei supercritici continuano a contrarsi lentamente per alcuni milioni di anni a temperatura costante fintantoché l'energia gravitazionale viene dissipata mediante l'irraggiamento di onde radio millimetriche. Il manifestarsi di fenomeni di instabilità provoca un improvviso collasso del frammento, che porta ad un aumento della densità al centro fino a ~3 × 1010 molecole al cm³ e ad un'opacizzazione della nube alla sua stessa radiazione, che provoca un aumento della temperatura (da 10 a 60-100 K) ed un rallentamento del collasso. Il riscaldamento dà luogo a un aumento della frequenza delle onde elettromagnetiche emesse: la nube ora irradia nell'infrarosso lontano, cui essa è trasparente; in questo modo la polvere media un secondo collasso della nube. Si viene a creare a questo punto una configurazione in cui un nucleo centrale idrostatico attrae gravitazionalmente la materia diffusa nelle regioni esterne: è il cosiddetto first hydrostatic core (primo nucleo idrostatico), che continua ad aumentare la sua temperatura in funzione del teorema del viriale e delle onde d'urto causate dal materiale a velocità di caduta libera. Dopo questa fase di accrescimento a partire dall'inviluppo di gas circostante, il nucleo inizia una fase di contrazione quasi statica. Quando la temperatura del nucleo raggiunge circa i 2000 K, l'energia termica dissocia le molecole di H2 in atomi di idrogeno, 47 che subito dopo si ionizzano assieme agli atomi di elio. Questi processi assorbono l'energia liberata dalla contrazione, permettendole di proseguire per periodi di tempo comparabili col periodo del collasso a velocità di caduta libera. Non appena la densità del materiale in caduta raggiunge il valore di 10−8g cm−3, la materia diviene sufficientemente trasparente da permettere alla luce di sfuggire. La combinazione di moti convettivi interni e dell'emissione di radiazioni permette all'embrione stellare di contrarre il proprio raggio. 47 Questa fase continua finché la temperatura dei gas è sufficiente a mantenere una pressione abbastanza elevata da evitare un ulteriore collasso; si raggiunge così un momentaneo equilibrio idrostatico. Quando l'oggetto così formato cessa questa prima fase di accrescimento prende il nome di protostella; l'embrione stellare permane in questa fase per alcune decine di migliaia di anni. In seguito al collasso la protostella deve aumentare la propria massa accumulando gas; ha così inizio una seconda fase di accrescimento che va avanti ad un ritmo di circa 10−6-10−5 M☉ all'anno. L'accrescimento del materiale verso la protostella è mediato da una struttura discoidale, allineata con l'equatore della protostella, che si forma nel momento in cui il moto di rotazione della materia in caduta (inizialmente uguale a quello della nube) viene amplificato a causa della conservazione del momento angolare; tale formazione ha anche il compito di dissipare l'eccesso di momento angolare, che altrimenti causerebbe lo smembramento della protostella. In questa fase si formano inoltre dei flussi molecolari, frutto forse dell'interazione del disco con le linee di forza del campo magnetico stellare, che si dipartono dai poli della protostella, anch'essi probabilmente con la funzione di disperdere l'eccesso di momento angolare. 4 L'urto di questi getti con il gas dell'inviluppo circostante può generare delle particolari nebulose a emissione note come oggetti di Herbig-Haro. L'aggiunta di massa determina un incremento della pressione nelle regioni centrali della protostella, che si riflette in un aumento della temperatura; quando questa raggiunge un valore di almeno un milione di kelvin, ha inizio la fusione del deuterio, un isotopo dell'idrogeno (21H); la pressione di radiazione che ne risulta rallenta (ma non arresta) il collasso, mentre prosegue la caduta di materiale dalle regioni interne del disco di accrescimento sulla superficie della protostella. La velocità di accrescimento non è costante: infatti la futura stella raggiunge in tempi rapidi quella che sarà la metà della sua massa definitiva, mentre impiega oltre dieci volte più tempo per accumulare la restante massa. La fase di accrescimento è la parte cruciale del processo di formazione di una stella, dal momento che la quantità di materia che l'astro nascente riesce ad accumulare condizionerà irreversibilmente il suo destino successivo: infatti, se la protostella accumula una massa compresa tra 0,08 e 8-10 M☉ evolve successivamente in una stella pre-sequenza principale; se invece la massa è nettamente superiore, la protostella raggiunge immediatamente la sequenza principale. La massa determina inoltre la durata della vita di una stella: le stelle meno massicce vivono molto più a lungo delle stelle più pesanti: si va dal bilione di anni delle stelle di classe M V 51 fino ai pochi milioni di anni delle massicce stelle di classe O. Se invece l'oggetto non riesce ad accumulare almeno 0,08 M☉ la temperatura del nucleo permette la fusione del deuterio, ma si rivela insufficiente all'innesco delle reazioni di fusione dell'idrogeno pròzio, l'isotopo più comune di questo elemento (11H); questa "stella mancata", dopo una fase di stabilizzazione, diviene quella che gli astronomi definiscono nana bruna. L'emissione di vento da parte della protostella all'ignizione della fusione del deuterio determina la dispersione di gran parte dell'involucro di gas e polveri che la circonda; la protostella passa così alla fase di stella pre-sequenza principale (o stella PMS, dall'inglese pre-main sequence), la cui fonte di energia è ancora il collasso gravitazionale e non la fusione dell'idrogeno come nelle stelle di sequenza principale. Si riconoscono due principali classi di stelle PMS: le variabili Orione, che hanno una massa compresa tra 0,08 e 2 M☉, e le stelle Ae/Be di Herbig, con una massa compresa tra 2 e 8 M☉. Non si conoscono stelle PMS più massicce di 8 M☉, dal momento che quando entrano in gioco delle masse molto elevate l'embrione stellare raggiunge in maniera estremamente rapida le condizioni necessarie all'innesco della fusione dell'idrogeno e passa direttamente alla sequenza principale. Le variabili Orione si suddividono a loro volta in stelle T Tauri, stelle EX Lupi (EXor) e stelle FU Orionis (FUor). Si tratta di astri simili al Sole per massa e temperatura, ma alcune volte più grandi in termini di diametro e, per questa ragione, più luminosi. N 1 Sono caratterizzate da alte velocità di rotazione, tipiche delle stelle giovani, e possiedono un'intensa attività magnetica, oltre che getti bipolari. Le FUor e le EXor rappresentano delle categorie particolari di T Tauri, caratterizzate da cambiamenti repentini e cospicui della propria luminosità e del tipo spettrale; le due classi differiscono tra loro per tipo spettrale: le FUor sono, in stato di quiescenza, di classe F o G; le EXor di classe K o M. Le stelle Ae/Be di Herbig, appartenenti alle classi A e B, sono caratterizzate da spettri in cui dominano le linee di emissione dell'idrogeno (serie di Balmer) e del calcio presenti nel disco residuato dalla fase di accrescimento. La stella PMS segue un caratteristico tragitto sul diagramma H-R, noto come traccia di Hayashi, durante il quale continua a contrarsi. La contrazione prosegue fino al raggiungimento del limite di Hayashi, dopodiché prosegue a temperatura costante in un tempo di Kelvin-Helmholtz superiore al tempo di accrescimento; in seguito le stelle con meno di 0,5 masse solari raggiungono la sequenza principale. Le stelle da 0,5 a 8 M☉, al termine della traccia di Hayashi, subiscono invece un lento collasso in una condizione prossima all'equilibrio idrostatico, seguendo a questo punto un percorso nel diagramma H-R detto traccia di Henyey. La fase di collasso ha termine quando finalmente, nel nucleo della stella, si raggiungono i valori di temperatura e pressione necessari per l'innesco della fusione dell'idrogeno prozio; quando la fusione dell'idrogeno diviene il processo di produzione energetica predominante e l'eccesso di energia potenziale accumulata con la contrazione viene dispersa, la stella raggiunge la sequenza principale standard del diagramma H-R e l'intenso vento generato a seguito dell'innesco delle reazioni nucleari spazza via i materiali residui, rivelando alla vista la presenza della stella neoformata. Gli astronomi si riferiscono a questo stadio con l'acronimo ZAMS, che sta per Zero-Age Main Sequence, sequenza principale di età zero. La curva della ZAMS può essere calcolata mediante simulazioni computerizzate delle proprietà che le stelle avevano al momento del loro ingresso in questa fase. Le successive trasformazioni della stella sono studiate dall'evoluzione stellare. Pur esplicando in modo chiaro le modalità attraverso cui avviene, il modello standard non spiega che cosa dia inizio al collasso. Non sempre la formazione di una stella inizia in maniera del tutto spontanea, a causa delle turbolenze interne oppure per via della diminuzione della pressione interna del gas a causa del raffreddamento o della dissipazione dei campi magnetici. Anzi, più spesso, come dimostrano innumerevoli dati osservativi, è necessario l'intervento di qualche fattore che dall'esterno perturbi la nube, causando le instabilità locali e promuovendo dunque il collasso. A tal proposito numerosi sono gli esempi di stelle, per lo più appartenenti ad ampie associazioni stellari, le cui caratteristiche mostrano che si sono formate quasi contemporaneamente: dal momento che un simultaneo collasso di nuclei densi indipendenti sarebbe un'incredibile coincidenza, è più ragionevole pensare che questo sia la conseguenza di una forza applicata dall'esterno, che ha agito sulla nube causando il collasso e la successiva formazione stellare. Tuttavia non sono infrequenti gli esempi di collassi iniziati spontaneamente: alcuni esempi di questo sono stati individuati tramite l'osservazione infrarossa in certi nuclei densi isolati, relativamente quiescenti, posti in nubi vicine tra loro. In alcuni di essi, come nel globulo di Bok Barnard 355, sono state riscontrate tracce di lenti moti centripeti interni e sono state osservate anche delle sorgenti infrarosse, segno che potrebbero essere avviati alla formazione di nuove stelle. Diversi possono essere gli eventi esterni in grado di promuovere il collasso di una nube: le onde d'urto generate dallo scontro di due nubi molecolari o dall'esplosione nelle vicinanze di una supernova; le forze di marea che si instaurano a seguito dell'interazione tra due galassie, che innescano una violenta attività di formazione stellare definita starburst (si veda anche il paragrafo Variazioni nella durata e nel tasso di formazione stellare); gli energici super-flare di un'altra vicina stella in uno stadio più avanzato di formazione oppure la pressione del vento o l'intensa emissione ultravioletta di vicine stelle massicce di classe O e B, che può regolare i processi di formazione stellare all'interno delle regioni H II. Si ipotizza inoltre che la presenza di un buco nero supermassiccio al centro di una galassia possa avere un ruolo regolatore nei confronti del tasso di formazione stellare nel nucleo galattico: 72 infatti, un buco nero che sta accrescendo materia con tassi molto elevati può diventare attivo ed emettere un forte getto relativistico collimato in grado di limitare la successiva formazione di stelle. Tuttavia, l'emissione radio attorno ai getti, così come l'eventuale bassa intensità del getto stesso, può avere un effetto esattamente opposto, innescando la formazione di stelle qualora si trovi a collidere con una nube che gli transita nelle vicinanze. 73 L'attività di formazione stellare risulta fortemente influenzata dalle condizioni fisiche estreme che si riscontrano entro 10-100 parsec dal nucleo galattico: intense forze di marea, incremento dell'entità delle turbolenze, riscaldamento del gas e presenza di campi magnetici piuttosto intensi; 74 a rendere più complesso questo quadro concorrono inoltre gli effetti dei flussi microscopici, della rotazione e della geometria della nube. Sia la rotazione che i campi magnetici possono ostacolare il collasso della nube, 75 76 mentre la turbolenza favorisce la frammentazione, e su piccole scale promuove il collasso. 77 Eccettuando la lacuna sopra discussa, il modello standard descrive bene ciò che accade in nuclei isolati in cui sta avvenendo la formazione di una stella. Tuttavia, la stragrande maggioranza delle stelle non nasce in solitaria, ma in folti ammassi stellari, e il modello non spiega l'influenza che tale ambiente esercita sulle stelle nascenti. Inoltre, rispetto a quanto ritenuto in passato, la formazione stellare è un evento piuttosto violento: infatti l'osservazione infrarossa ha mostrato che la formazione di una stella interferisce negativamente sulla nascita degli astri adiacenti, dal momento che la radiazione e il vento prodotti nelle ultime fasi della formazione possono limitare la quantità di gas che può accrescere liberamente sulle vicine protostelle. Per sopperire a tale lacuna sono state sviluppate due teorie. La prima, detta teoria dell'accrescimento competitivo, si concentra sulle interazioni tra nuclei densi adiacenti. La versione più estrema di questa teoria prevede la formazione di numerose piccole protostelle, che si muovono rapidamente nella nube entrando in competizione tra loro per catturare quanto più gas possibile. Alcune protostelle tendono a prevalere sulle altre, divenendo le più massicce; altre potrebbero persino essere espulse dall'ammasso, libere di muoversi all'interno della galassia. La concorrente, la teoria del nucleo turbolento, privilegia invece il ruolo della turbolenza dei gas: la distribuzione delle masse stellari rispecchia, infatti, lo spettro dei moti turbolenti all'interno della nube piuttosto che una successiva competizione per l'accumulo di massa. Le osservazioni sembrano dunque favorire questo modello, anche se la teoria dell'accrescimento competitivo potrebbe sussistere in regioni in cui la densità protostellare è particolarmente elevata.
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Torniamo a parlare della Nebulosa della Carena. Circa 0,5° a sud della stella η Carinae si trova una regione della nebulosa contenente alcune strutture allungate formate da polveri, la più grande delle quali è lunga 25 pc e sembra puntare in direzione della stessa η Carinae. Le strutture, dette "Pilastri" a causa della loro forma, hanno la parte più brillante rivolta verso la stella η Carinae e lunghe code dirette nella direzione opposta, verso una struttura oscura non ancora identificata; la direzione dell'illuminazione e delle strutture in sé suggerisce che la fonte del vento stellare che modella queste nubi e della ionizzazione è proprio la stessa η Carinae, assieme ad altre stelle supergiganti azzurre membri dell'ammasso Tr 16, la cui radiazione ultravioletta opera una fotolisi sui gas di questa regione.[41] Si tende ad escludere pertanto che la causa del modellamento sia l'apparentemente più vicino Bochum 11, proprio per via della direzione delle code. Dato che strutture simili sono state osservate anche nella Nebulosa Tarantola, le cui code puntano in direzione opposta all'ammasso R136, e che si è suggerito che simili formazioni siano fra le prime responsabili dell'avviamento di intensi fenomeni di formazione stellare, si pensa che questi fenomeni possano avere il medesimo effetto anche nel caso della Nebulosa della Carena. Si ipotizza pertanto che queste formazioni possano rappresentare la fase iniziale di una futura ondata di intensa formazione stellare all'interno di questa nebulosa. Appare inoltre molto probabile che il tasso di formazione stellare sia rimasto comunque costante all'interno della nebulosa fin dalla nascita degli ammassi più massicci. Sia nel settore settentrionale che in quello meridionale della nebulosa sono state individuate altre prove che mostrano come la formazione stellare sia realmente in atto, prima fra tutte la presenza di alcuni giovanissimi oggetti HH. L'oggetto HH più noto della Nebulosa della Carena, anche a causa della sua sigla, è HH 666, soprannominato L'asse diabolico; si tratta di un getto bipolare che emerge da un globulo molecolare, formato da alcuni bow shock. Le sue dimensioni angolari sono pari a circa 4,5 primi d'arco, che a una distanza di 7500 anni luce equivalgono a una lunghezza di circa 10 anni luce; tuttavia, questa misura sarebbe sottostimata, dato che l'orientamento dei getti non è perpendicolare alla nostra linea di vista. Il Telescopio Spaziale Hubble ha catturato delle immagini ad alta risoluzione di un gran numero di altri oggetti stellari giovani; alcune di queste immagini mostrano dei getti rettilinei di gas provenienti da aree molto dense (ossia oggetti HH) che si perdono nel mezzo interstellare nebuloso circostante. HH 666 e gli altri oggetti simili (come HH 901 e 902) sono connessi con dei grossi globuli in cui non si osservano stelle alla lunghezza d'onda della luce visibile, ma solo all'infrarosso; tutte queste sorgenti infrarosse sarebbero di fatto siti di formazione stellare, interessanti in quanto sarebbero degli ottimi esempi di fenomeni causati dal vento stellare delle stelle più calde di classe O. All'interno della nebulosa è identificabile un gran numero di strutture minori; in realtà, mentre alcune sono vere nebulose nella nebulosa, gran parte delle strutture osservabili sono date dal continuo alternarsi di zone illuminate ed aree oscure. Il Buco della serratura è un soprannome dato da John Herschel nell'Ottocento ad una piccola nebulosa oscura che si sovrappone al chiarore diffuso del resto della nebulosa; egli osservò infatti una brillante macchia di forma circolare sovrapposta al chiarore diffuso della nebulosa, con una piccola banda che si prolungava verso sud, dando così l'idea di una toppa di serratura. La Nebulosa Omuncolo è una struttura nebulare formata dalle varie espulsioni di materia della stella η Carinae; si pensa che la struttura maggiore oggi osservabile si sia formata a seguito dell'ultima grande esplosione della stella, avvenuta nel 1841, quando raggiunse e superò la luminosità di Canopo, diventando la seconda stella più brillante del cielo. L'esplosione ha prodotto due lobi polari ed un vasto ma debole disco equatoriale, il tutto in allontanamento dalla stella alla velocità di 2,4 milioni di km/h. Non si esclude la possibilità di un riverificarsi in futuro di tali esplosioni. Nonostante η Carinae sia situata a circa 7500 anni luce dal nostro pianeta, possono essere distinte, ad un'accurata osservazione, solo le strutture con una grandezza dell'ordine dei 15 miliardi di chilometri (paragonabile al diametro del Sistema solare). È nella natura stessa delle regioni H II che esse siano circondate da ammassi e associazioni di stelle giovani: infatti, poiché la formazione stellare avviene al loro interno, le stelle più giovani, prima di disperdersi, appaiono raggruppate attorno all'area dove si sono formate. Gli agglomerati di stelle più notevoli del sistema nebuloso sono catalogati come Trumpler 14, Trumpler 16 e Collinder 232; l'insieme di questi ammassi costituisce una vasta e importante associazione OB, nota come Carina OB1. Nelle regioni più centrali della Nebulosa della Carena sono presenti due grandi concentrazioni di stelle, note come associazioni OB: queste due associazioni riportano le sigle di catalogo Tr 14 e Tr 16; in totale contano poco più di venti stelle molto calde, di classe spettrale B3, e diverse giovanissime stelle di Wolf-Rayet e pre-sequenza principale. In uno studio condotto nel 2004 da un gruppo di scienziati dello Space Telescope Science Institute, sono state analizzate le stelle di spettro O e B delle due associazioni; cinque di queste si sono rivelate delle binarie strettissime con delle separazioni che vanno dagli 0,015 secondi d'arco ai 0,352. Gli esiti più importanti di questa ricerca sono stati fondamentalmente due: il primo è stata la risoluzione del prototipo di stella O2 If* HD 93129A, formata da una coppia di componenti separate da 55 millisecondi d'arco con una variazione di magnitudine visuale di 0,9; quest'oggetto è servito da punto di riferimento spettroscopico per l'analisi delle stelle più calde e massicce e del loro vento stellare sull'assunzione precedente che si tratti di una singola stella. Questa scoperta supporta l'interpretazione delle osservazioni condotte ai raggi X della collisione del vento stellare in questa stella. Un secondo esito interessante è la determinazione di un limite superiore di circa 35 UA delle separazioni ipotizzate per le coppie di stelle di quest'area di cielo; ciò apre la strada a degli studi approfonditi sui sistemi di stelle di questi ammassi giovani che ionizzano i gas della nebulosa. Un terzo ammasso aperto oggetto di studi approfonditi è Cr 232: si tratta di un insieme di stelle molto giovani ben in risalto rispetto ai campi stellari circostanti; nonostante si trovi apparentemente distante dalla nebulosa, oltre un grado ad est, sarebbe fisicamente legato al complesso nebuloso molecolare della Carena. L'età, stimata attorno ai 20 milioni di anni, è compatibile con quella degli altri ammassi e anche la sua composizione stellare è paragonabile, essendo formato da stelle di pre-sequenza principale e di classe O e B. In uno studio del 2003 che prendeva in considerazione il numero di stelle di quest'oggetto, si afferma che quest'ammasso in realtà non sarebbe reale, poiché il profilo della densità delle sue stelle sarebbe troppo piatto e vicino alla densità del campo stellare circostante. Tuttavia, paragonando i diagrammi HR di questo e dei precedenti due ammassi, emerge che la distribuzione stellare entro questi diagrammi (ossia le relazioni magnitudine-colore) sono estremamente simili; da ciò ne deriva che questi oggetti possiedono una composizione stellare molto simile. Tuttavia, non è possibile escludere che Cr 232 non appartenga all'alone stellare cui fanno parte anche Tr 14 e Tr 16: infatti, la parte orientale di Tr 14, in direzione di Cr 232, appare molto meno oscurata rispetto alla parte occidentale, dove la Nebulosa della Carena è otticamente molto debole. Oltre a queste tre concentrazioni stellari (Tr 14, Tr 16 e Cr 232), che sono anche le più giovani, si osservano altri ammassi di età molto simile o appena superiori: è il caso di NGC 3324 e Tr 15. Le nubi interstellari come la Nebulosa della Carena sono state scoperte in tutte le galassie come la Via Lattea. Esse nascono come piccole macchie di idrogeno neutro freddo intramezzato da tracce di altri elementi; la nube può contenere centinaia di migliaia di masse solari ed estendersi per centinaia di anni luce. La leggera forza di gravità che potrebbe portare al collasso della nube è controbilanciata da una debole pressione del gas nella nube stessa. Sia a causa della collisione con i bracci di spirale, sia a causa delle onde d'urto causate dalle supernovae, gli atomi possono iniziare a precipitare in molecole più pesanti, producendo così una nube molecolare. Ciò preannuncia la formazione di stelle all'interno della nube, il che avviene entro un periodo di 10-30 milioni di anni all'interno di aree instabili, dove i volumi destabilizzati collassano in un disco; questo si concentra nelle regioni centrali, dove si formerà la stella, che potrà essere circondata da un disco protoplanetario: nasce così la regione H II, ossia un vasto agglomerato di gas illuminato ed eccitato dalle brillanti stelle blu in esso formatesi, raggruppate in ammassi e associazioni stellari. La vita media di una regione H II è dell'ordine di pochi milioni di anni. La pressione di radiazione proveniente dalle stelle calde e giovani possono far disperdere la gran parte del gas residuo; infatti, questo processo tende ad essere molto inefficiente, nel senso che meno del 10% del gas di una regione H II collassa per formare stelle prima che il restante venga spazzato via. Un altro fenomeno che può contribuire alla dispersione del gas sono le esplosioni delle stelle più massicce appena formate come supernovae, che avvengono dopo appena 1-2 milioni di anni dalla formazione dell'ammasso. Anche la Nebulosa della Carena è destinata, col tempo, a disperdere a tal punto il suo materiale, da dissolversi nel mezzo interstellare circostante, finché le dinamiche dei bracci di spirale non ne riaddenseranno la materia.